Il senso del viaggio: visitare Tallinn, Estonia, come bricolage etnografico

Che vuol dire viaggiare? Che senso dare al viaggio? Sono recentemente tornato in Estonia, dopo tanto tempo, e ne ho approfittato – ne approfitto – per riflettere su questa esperienza cercando di capire in che modo il viaggio acquisisce senso, più in generale e per me, in quanto persona comune e antropologo a cui viene difficile separare i due ruoli. Perché dovrei, poi, voler separare i due ruoli? La vita è, tra le altre cose, un instabile intreccio di molteplici ruoli e di azioni varie e ricongiunte. Io ho vissuto e insegnato per anni in Estonia. Mio figlio Mattia è praticamente cresciuto a Tartu, prima, e a Tallinn, poi. Mio figlio minore, Emanuele, è nato a Tallinn. Considero l’Estonia il mio secondo paese e non vedevo l’ora di tornarci, sinceramente, nonostante non lo avessi fatto, per anni, per varie ragioni.

Il mio viaggio era un ritorno tanto atteso e nostalgico. Il mio viaggio, però, non era libero da vincoli e costrizioni. Dovevo partecipare a un convegno. Dovevo tenere un corso di antropologia della letteratura. Dovevo anche tenere una conferenza sul tipo di antropologia che ho praticato negli ultimi tempi e che ha strette connessione con il senso del vivere. È pure vero che tutte queste attività sono piacevoli. Di fatto, non le considero dei veri e propri lavori: mi danno in effetti gioia, sono oggetti di riflessione dialogica e parte integrante della mia vita in positivo.

Per le strade di Tallinn, Estonia. Photo credit: Stefano Montes.

Perché parlo di “lavoro” allora? Se parlo anche di “lavoro”, è proprio perché penso che lavoro e vita privata, costrizioni e piaceri, risiedere e viaggiare, rappresentano un tutt’uno sovente inscindibile, ma su cui è utile riflettere in termini culturali ed esistenziali. Riflettere sul viaggio, dovuto in parte alla mia professione, significa trasformare la sua valenza in vero e proprio resoconto etnografico: perché “noi siamo, noi stessi, soggetti sperimentali i cui dati primari sono le nostre esperienze” (Jackson 1989: 4).

Anche un semplice viaggio, su questa base, può essere preso in conto in quanto esperienza etnografica trasposta in testo: si può “pensare attraverso un argomento”, quale che esso sia (Clifford 2004: 70). In più, se questo argomento ha una valenza pratica d’ordine sociale e il suo ‘utente’ – me stesso – ha uno scopo teorico vissuto in prima persona, allora, indipendentemente dall’esotismo e dallo straordinario, si può parlare di ricerca etnografica a tutti gli effetti. Io, per di più, non disdegno l’ordinario e il quotidiano e non considero, a priori, un viaggio necessariamente sotto l’egida dello straordinario o dell’esotico.

Anche un’ordinaria scalinata, come questa fotografata nel centro di Tallinn, può nascondere significati extra-ordinari all’interno della dimensione del viaggio. Photo credit: Stefano Montes.

Per molti studiosi, persino le esperienze più banali vanno prese in conto come oggetto di riflessione di più ampio respiro: “Quel che ci parla, mi pare, è sempre l’avvenimento, l’insolito, lo straordinario […] Quello che succede veramente, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è?” (Perec 2023: 8). Un frammento di vita, quale che sia la sua valenza (straordinaria o ordinaria), può diventare oggetto di indagine etnografica. Già a suo tempo, Malinowski (ovvero il fondatore del metodo di ricerca etnografico) ricordava un principio di fondo, tuttora valido, dell’antropologia: si deve “studiare l’essere umano e ciò che lo riguarda più intimamente, cioè la presa che ha su di lui la vita” (Malinowski 2004: 33-34).

Qui, più particolarmente, il mio argomento è il viaggio, il senso da attribuirgli, la sua valenza esistenziale e relazionale. Adotto il viaggio come guida etnografica per pensare il viaggio in alcune sue possibili estensioni. Lo adotto come pratica teorica da attraversare e attraverso cui pensare anche mediante le foto scattate. Mi lascio attraversare dal viaggio, dunque, mentre ne faccio liberamente uso per scopi antropologici, oltre che personali.

Il primo dubbio che mi passa per la testa è l’inizio: dove inizia un viaggio? Sarebbe fin troppo semplice dire che il viaggio inizia nel momento in cui si mette piede in aereo o in nave o in qualche altro mezzo. Il viaggio inizia prima ancora dello spostamento vero e proprio. Il viaggio inizia già con la fase di programmazione e l’immaginazione che l’accompagna, a casa, prima della partenza. La programmazione, per quanto a volte sterile e noiosa, è parte integrante del viaggio. La programmazione, di fatto, include non soltanto la scelta del luogo da visitare, ma anche – in apparenza banalmente – la selezione di indumenti e oggetti da portare con sé durante il viaggio.

La selezione degli indumenti da portare con sè prima di un viaggio si traduce in esperienza, e quindi in significato, durante il viaggio. Photo credit: Stefano Montes.

Questa selezione si fonda su necessità e saperi di cui non è possibile non tenere conto, pena il fallimento del viaggio stesso e la sua felice riuscita. Questa selezione è parte integrante dell’orientamento individuale e antropologico. Come ricordano Jack e Phipps i viaggiatori “impacchettano” il loro sapere, mettendo in valigia il risultato delle loro scelte (Jack, Phipps 2005): ne rivelano, in questo modo, tratti al contempo essenziali e marginali.

La mia valigia è in genere piena di libri, contiene una macchina fotografica ed un computer. Segno della mia professione di antropologo? Certo, ma anche segno supplementare del fatto che, anche quando mi sposto per piacere, considero il viaggio un oggetto di conoscenza da trasformare in testi e immagini con cui dialogare. Mi penso, io stesso, in effetti, in continuo dialogo con le persone, con il mondo e con i testi che ne risultano. Per me, trasporre il viaggio in mezzo di conoscenza personale è, in fondo, uno stile di vita.

In ogni caso, programmando il viaggio, scegliendo il paese e pensando ai luoghi particolari da visitare, si è proiettati nell’universo dell’immaginazione. Il viaggio è, anche inizialmente, proiezione in un immaginario che ha un valore molto ampio, che si moltiplica, che diventa plurale: “Le immaginazioni delle persone all’interno di qualsiasi mondo sociale non sono mai esaurite dalle possibilità offerte. Gli individui […] cercano sempre il miracolo incarnato dall’estasi al fine di rigettare i limiti dell’ordinario” (Lindholm 2008: 144). Io però credo che l’immaginazione – parlando di viaggio – non si leghi necessariamente alla sola autenticità o a elementi esclusivamente straordinari. Nel mio viaggio in Estonia, per esempio, non ero mosso da alcuna idea o fine di autenticità.

Una mappa dell’Estonia. Ogni immaginazione del viaggio (e pretesa della sua autenticità) non può prescindere dal modo in cui la sua meta viene rappresentata. Photo credit: Britannica.com.

Cosa ricercavo allora? Volevo, soprattutto, tornare a Tallinn e rivedere i luoghi dove avevo vissuto e che avevo frequentato all’epoca. Nei giorni che precedevano il mio viaggio, quindi, immaginavo di essere sul posto e di passeggiare da una parte e dall’altra della città. Immaginavo, con gioia, di essere sul luogo e di scattare foto da inviare ai miei familiari. Certo, il mio viaggio era da considerare un ritorno sul luogo dove avevo vissuto. E il ritorno mette in moto il ricordo che proietta il soggetto nel passato – mi chiedevo, per esempio, cosa fosse cambiato durante la mia assenza – e fa scattare anche l’immaginazione.

Sapevo, prima ancora di partire, che mi sarei confrontato con i luoghi e allo stesso tempo con ciò che era rimasto nella sedimentazione del mio ricordo a volte sbiadito. Il passato e il presente sarebbero venuti ai ferri corti? Semplicemente, la presenza in vivo avrebbe dovuto fare i conti con la mia memoria e con i ricordi che emergevano dal passato. Per un semplice turista, per la prima volta in Estonia, la sua permanenza avrebbe comunque avuto un significato altrettanto ambivalente: la presenza sul posto avrebbe rimandato alle informazioni ricevute dall’agenzia di viaggio o tramite guide turistiche e siti Internet.

C’è sempre, quindi, per gradi diversi, un contrappunto! Quello che voglio dire è che stabilire l’inizio di un viaggio è un fatto in parte arbitrario proprio perché si inizia a viaggiare già con l’immaginazione, con il ricordo anticipatore e con la preparazione del viaggio stesso. Dove va posta, dunque, la barra dell’inizio e della stessa immaginazione?

Un’antica torre nel centro storico di Tallinn, Estonia. Si tratta di realtà o di immaginazione? In ogni caso, si tratta di un’immagine costitutiva del mio viaggiare e dei significati che il viaggio porta con sè. Photo credit: Stefano Montes.

Io ho cercato aiuto nelle foto. Ho dato un’occhiata alle mie foto e ho visto che la prima foto in assoluto l’ho scattata mentre stavo per salire in aereo, dopo aver fatto la coda sulla scaletta. È una foto strana, ripensandoci: ho inquadrato, infatti, soltanto una parte dell’aereo lasciando che lo sguardo si perdesse, invece, nel resto del fotogramma, nella vastità dell’aeroporto, nell’incertezza della luce e nella varietà delle forme acquisite dalle nuvole. Voglio forse dire, con questa immagine, che il mio viaggio procede mescolando elementi diversi, compresenti? Non saprei con certezza.

Mi riservo di rispondere in seguito, con maggiore prontezza, sulle mie intenzioni originarie: tenendo conto dell’insieme del mio viaggio e del contesto più ampio. Non è in ogni caso fuori luogo quello che affermo! Io, come altri, non ho il controllo e la consapevolezza totale delle mie intenzioni. Come scrive Duranti, infatti, “abbiamo bisogno di ripensare il concetto [di intenzione] e la sua utilizzazione all’interno di una teoria dell’agire umano che comprende sia gli affetti che il giudizio morale” (Duranti 2007: 86).

Partenza in aereo: la prima fotografia scattata durante il mio viaggio in Estonia. Photo credit: Stefano Montes.

Sicuramente, il mio viaggio in Estonia può essere considerato un bricolage di istanze temporali diverse e contrappuntistiche: il passato torna sotto forma di ricordo e il presente si mescola e si intromette inevitabilmente, sovrapponendosi. Fino a che punto l’emersione del ricordo fa a pugni con lo scorrere inevitabile della vita nel presente e nella pianificazione del futuro? Difficile rispondere a questa domanda d’ordine fenomenologico e antropologico. Fatto sta che il ricordo non va comunque preso sottogamba.

Le ragioni per cui è necessario concedere un posto importante alla riflessione sul ricordo sono diverse. Innanzitutto, se possiamo narrare – tornando al passato recuperando frammenti di vita vissuta – è solo perché siamo in grado di ricordare ciò che siamo stati e di richiamarlo nel presente: la narrazione, per gradi diversi, si nutre di passato.

Il ricordo non va preso sottogamba anche per un’altra ragione: esso è fondativo rispetto alla nostra stessa identità che, per quanto mobile, trae comunque linfa vitale dalla sedimentazione della memoria e dal suo divenire trampolino di lancio per progetti futuri. Come afferma Assmann: “gli spazi della memoria nascono attraverso quella parziale focalizzazione del passato di cui un individuo o un gruppo hanno bisogno per costruire il senso, per fondare la propria identità, per orientare la propria vita, per motivare il proprio agire” (Assmann 2002: 445).

Tramonto sul Golfo di Finlandia presso Tallinn, Estonia. Si tratta di un ricordo nostalgico o di un presente fotografico? Photo credit: Stefano Montes.

Il mio caso, essendo antropologo, è forse più complicato sia dal punto di vista dei ruoli assunti consapevolmente o meno, sia dal punto di vista della mia stessa identità nel suo complesso sovrapporsi di ruoli e di istanze d’azione. Riflettendo sul mio viaggio in Estonia, io occupo una posizione attanziale ambigua: sono un antropologo che cerca di ragionare sul viaggio con riferimenti teorici accumulati nel tempo attraverso lo studio di una disciplina; sono anche una persona che cerca di rivelare a se stesso il senso del viaggio che ha vissuto in prima persona; sono inoltre il destinatario del mio stesso viaggio in termini di ricezione e di comprensione, a cose fatte, poiché mi interrogo sul suo senso originario e in divenire.

Augé insiste particolarmente su questo terzo punto: egli insiste sul nesso esistente tra il viaggio e la vita, e sul fatto che il viaggio acquisisce effettivamente senso al ritorno a casa del viaggiatore allorquando viene mostrato – attraverso foto e filmati – ad amici e parenti e viene commentato (Augé 2001). Oggigiorno, le cose sono alquanto cambiate grazie alla digitalizzazione dell’esistenza. Questo processo ricettivo e riepilogativo di cui parla Augé, viene messo in moto durante il viaggio. Se è ancora vero, infatti, come afferma Augé, che il viaggio è narrazione, è altresì necessario ribadire il principio che questa narrazione si dispiega già mentre si viaggia, per esempio, nell’atto stesso di inviare foto e messaggi ai familiari e agli amici tramite dispositivi elettronici.

Così è stato anche per me. Ho mandato una serie infinita di messaggi e di foto ai miei familiari che, tematicamente, avevano a che vedere soprattutto con i luoghi dove abbiamo vissuto in Estonia e che avevamo frequentato all’epoca. Per molti aspetti, ho fatto in modo – più o meno consapevolmente – che anche i miei familiari vivessero il mio viaggio quasi in parallelo al mio: il tramite erano le foto e i messaggi con cui li inondavo nell’arco della giornata. Ma l’ho fatto, a posteriori, anche perché volevo mantenere traccia del mio viaggio in una forma sequenziale, temporalmente definita dallo scorrere dei giorni. I miei messaggi erano una sorta di appunto in qualche modo lineare? Tenere traccia dello scorrere delle giornate era un modo per essere maggiormente consapevole rispetto a ciò che stavo vivendo e che tendeva a sfuggirmi, in parte, sul momento? Anche!

Un’immagine “da cartolina” del Golfo di Finlandia scattata a Tallinn, Estonia. Un paesaggio ideale per un ricordo da condividere, fissandolo eternamente nel presente, con amici e parenti tramite i media digitali. Photo credit: Stefano Montes.

Ciò che più conta è che, nel mio viaggio, si sono messe in atto due forme di compresenza partecipata: una compresenza d’ordine temporale tra passato e presente (il ricordo del mio passato e il mio vissuto presente) e una compresenza sociale d’ambito familiare (il mio vissuto condiviso con i miei figli e mia moglie).

Al di là di queste forme di compresenza preliminarmente concepite, è pur vero che non ho pensato al mio viaggio secondo linee teoriche precise o sulla base di un progetto ben determinato. Mi sono soltanto riproposto, a Palermo, dove abito e da dove sono partito, di prendere appunti e di scattare tante foto. Volevo tenere traccia degli accadimenti, senza l’assillo di doverci pensare in termini teorici e programmatici. Ho agito, di conseguenza, senza un piano coerente e ho, in seguito, ricomposto pezzi del mio viaggio – questo testo che il lettore ha sotto gli occhi ne è un esempio – montandoli come se io fossi una sorta di bricoleur che avanza mettendo insieme i materiali in suo possesso sulla base della necessità e delle circostanze casualmente incontrate.

Si possono prevedere, in effetti, due modi di agire e di concepire l’azione: realizzando un progetto preliminarmente concepito nel dettaglio oppure lasciandosi andare alla varietà di materiali o circostanze che si mettono insieme sul momento hic et nunc. È noto che Lévi-Strauss distingueva tra progetto e bricolage, tra lavoro dell’ingegnere e lavoro del bricoleur. Questa distinzione, Lévi-Strauss la applica anche in campo artistico e letterario: “Alla fine del Tempo ritrovato, Proust paragona il proprio lavoro a quello di una sarta che confeziona una veste utilizzando pezzi già tagliati nella debita forma; o, se l’abito è troppo usato, lo rattoppa. Allo stesso modo, nel suo libro egli affianca e incolla tra loro frammenti […] Questa tecnica di montaggio [si basa su un lavoro diverso] da quello che procede per mezzo di progetti, di schizzi ricorretti nella redazione definitiva” (Lévi-Strauss 1994: 10).

Scorcio notturno del centro storico di Tallinn, Estonia, una sorta di bricolage architettonico interno al mio bricolage esperienziale. Photo credit: Stefano Montes.

Diversamente dal progetto, quindi, attraverso il bricolage si realizza un’opera i cui singoli elementi mantengono tratti della loro individualità e un qualche legame con il passato. Il bricolage, in fin dei conti, consente di intrattenere un particolare rapporto con il passato degli elementi – siano essi frammenti di viaggio o veri e propri elementi materiali – ‘montati’ insieme e consente inoltre di proporre una novità, o diversità, d’uso nella nuova totalità ottenuta.

Io ho agito e pensato da bricoleur in effetti: lasciando libero corso al caso e all’intreccio di passato e presente. Ho proceduto secondo questa modalità e non ho fatto progetti precisi – al di là del mio insegnamento previsto all’Università di Tallinn – prima e durante il mio viaggio in Estonia. Una delle cose che non avevo previsto riguardava le mie lunghe passeggiate a fine cena. Io sono stato felicemente accolto e alloggiato a casa di Kristiina e Hanna, due amici di lunga data che vivono a Tallinn, non lontano dal mare. Ogni sera, dopo aver cenato e chiacchierato con loro, me ne andavo a passeggiare, fino al mare. Sono stato fortunato perché la temperatura, durante la mia permanenza, non era per niente bassa e c’erano quasi sempre delle belle e assolate giornate.

La sera, però, la temperatura scendeva fino a toccare i cinque o sei gradi. Nonostante tutto, facevo lunghe passeggiate la sera, mi sedevo su qualche panchina e mi mettevo a pensare alle sensazioni che stavo vivendo mentre lasciavo fluire i ricordi dal passato. Mi affascinava il silenzio che mi circondava e le luci delle finestre illuminate e aperte, dall’interno, sul mondo esterno. Seduto su una panchina o a zonzo per le strade silenziose di Tallinn, mi è venuto in mente che, in passato, al ritorno a Palermo dopo lunghi mesi trascorsi in Estonia, ero colpito dal chiasso e da elementi di disordine ai quali, ovviamente, essendo un nativo, mi riabituavo dopo pochi giorni.

Un’altra immagine notturna del centro storico di Tallinn, Estonia, ammantata di un esotico silenzio. Photo credit: Stefano Montes.

Un punto, tra le altre cose, va sottolineato. Queste mie passeggiate per le strade di Tallinn possono risultare strane agli occhi di qualcuno, tenuto conto della mia insofferenza per il freddo eccessivo. In realtà, passeggiare nella notte, in silenzio, mi consentiva di meglio attivare quella dimensione cognitiva – prenderne coscienza – della quale noi tutti, esseri umani, siamo provvisti: l’interrogazione costante che ci caratterizza interiormente, definita endofasia o pensiero per flussi.

In sostanza, mi servivo dei flussi di pensiero per instaurare un dialogo intenso con me stesso e con il mio passato che mi consentiva di meglio interrogarmi sulla valenza del mio viaggio in Estonia, oltre che sulla mia presenza nel mondo. Vale la pena ricordare che Lotman e Uspenskij definiscono questo attraversamento dialogico del nostro stesso pensare come una comunicazione “io-io” (Lotman e Uspenskij 1973). Comunicavo con me stesso, in sostanza, proiettandomi nello spazio estone e nel movimento della passeggiata.

C’è anche un’altra ragione per questa mia passione per le passeggiate notturne a Tallinn e questa ragione trova fondamento in un’ipotesi formulata sull’abitare da Clifford. Andando al di là dell’opposizione tra abitare e risiedere, Clifford propone di indagare il modo in cui “la casa è concepita e vissuta in rapporto alle pratiche dell’andare e venire” (Clifford 1999: 15). Con i miei cari amici, Kristiina e Hanna, mi sentivo come se fossi a casa mia e, in virtù di questa situazione, uscivo la sera per esplorare ciò che significava quell’andare e venire che smussava l’opposizione tra il risiedere e l’abitare. Proprio perché mi sentivo a mio agio in casa, proiettavo le mie sensazioni al suo esterno, trasformando lo spazio, nel suo complesso, in una sorta di casa estesa e di luogo familiare da vivere nella sua interezza.

Attraversamento notturno (pedonale o esistenziale?) lungo le strade di Tallinn, Estonia. Photo credit: Stefano Montes.

Per terminare, infine, questa prima incursione etnografica sul mio recente viaggio in Estonia – tornerò, infatti, a scriverci a breve – devo ribadire il ruolo che il viaggio aveva per i giovani benestanti del Nord Europa che si recavano in Italia nel Settecento e nell’Ottocento: il viaggio era un vero e proprio rito di passaggio che coincideva con l’avvenuta maturità dell’individuo (Brilli 1995). Il Grand Tour era, di fatto, un’istituzione culturale in senso artistico e più ampiamente antropologico: espressione di una crescita individuale e sociale realizzata tramite lo spostamento in quell’altrove artistico che era considerato l’Italia.

Cosa ha a che vedere il Grand Tour in Italia con la mia esperienza di viaggio in Estonia? Perché lo cito qui? Molti aspetti del mio viaggio – e delle passeggiate notturne – hanno avuto un sapore ritualistico, realizzato però in una modalità più personale e intima, non istituzionalizzata. Una componente centrale del rito è costituita proprio dalla memoria. La memoria è uno dei tratti fondamentali caratterizzanti sia l’individuo (per la configurazione della sua identità), sia la collettività (per il mantenimento della coesione del gruppo).

Se si tiene conto di questo, la mia incursione nel ricordo (e nella passeggiata notturna che consentiva un migliore dialogo endofasico con me stesso) diventa uno strumento non soltanto per riconvertire il passato in tempo presente (e nel divenire più consapevole della mia stessa identità), ma anche per lottare contro l’irreversibilità del tempo.

Passato e presente, rito e memoria, natura e cultura si intrecciano senza contrapporsi all’interno delle esperienze di viaggio, trasformandosi in fattori di identità personale. Photo credit: Stefano Montes.

In conclusione, il mio viaggio in Estonia può essere considerato, a tutti gli effetti, un felice ritorno anche in senso antropologico. Tentare di recuperare il passato o cercare di arrestare il tempo, tuttavia, non sempre è indolore. In quest’ottica, oltre che divertimento e intrattenimento, esperienza felice o negativa, il viaggio – vale per me, vale per altri – può essere visto come fonte di utile insegnamento e di proficuo decentramento antropologico.

Come scrive Adorno, si “tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe” (Adorno 1979: 304). Grazie alla ricomposizione – sempre possibile – di crepe e fratture, è comunque possibile rimettersi in gioco e risanarsi. Io ci provo, ogni volta che posso, ogni volta che viaggio.

Provo a occupare, nei miei scritti etnografici, i due ruoli di soggetto rimembrante e di soggetto interpretante. Ricordo e interpreto i miei ricordi e il mio vissuto presente: “si tratta di un esercizio di etnologia al contrario, giacché, di solito, chi è oggetto dell’indagine dà risposte, ma non pone domande” (Augé 2000: 11). E questo porsi delle domande in cerca di risposte è uno dei tratti costitutivi dell’antropologia.

Riferimenti bibliografici
Adorno T, W., Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1979 (1951)
Assmann A., Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. di S. Paparelli, Il Mulino, Bologna, 2002 (1999)
Augé M., Le forme dell’oblio. Dimenticare per vivere, trad. di R. Salvadori, Il Saggiatore, Milano, 2000 (1998)
Augé, M. “Viaggio ed etnografia. La vita come racconto”, in Finzioni di fine secolo, seguito da Che cosa succede?, Bollati Boringhieri, Torino, 2001 (2000), 53-62
Brilli A. Quando viaggiare era un’arte, Il Mulino, Bologna, 1995
Clifford J., Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo xx, trad. di M. Sampaolo e G. Lomazzi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999 (1997)
Clifford J., Ai margini dell’antropologia, trad. di S. Marinelli, Meltemi, Roma, 2004 (2003)
Duranti A., Etnopragmatica. La forza del parlare, Carocci, Roma, 2007
Jack G., Phipps A., Tourism and Intercultural Exchange, Channel View Publications, Clevedon, 2005
Jackson M., Path Toward a Clearing: Radical Empiricism and Ethnographic Inquiry, Indiana University Press, Bloomington, 1989
Lévi-Strauss C., Guardare Ascoltare Leggere, trad. di F. Maiello, Il Saggiatore, Milano, 1994 (1993)
Lindholm C., Culture and Authenticity, Blackwell, Malden, 2008
Lotman J. M., Uspenskij B. A., “I due modelli della comunicazione nel sistema della cultura”, in Tipologia della cultura, a cura di R. Faccani e M. Marzaduri, Bompiani, Milano, 1975 (1973), 111-133
Malinowski B., Argonauti del Pacifico occidentale, vol. I, trad. di M. Arioti, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 (1922)
Perec G., “Approcci di cosa”, in L’infra-ordinario, trad. di R. Delbono, Quodlibet, Macerata, 2023 (1973), 7-10

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