“Nessun Ucraino a sinistra del Dnepr è disposto a morire per Zelenskij”, sostiene lo scrittore russo Victor Erofeev.
Probabile abbia ragione, il grande fiume che nasce in Russia e percorre anche la Bielorussia non appartiene solo all’Ucraina, ma è fluendo per i bassipiani di quegli Oblast che attraversa per oltre mille chilometri, da Kiev fino al Mar Nero, che il Dnepr assume un formidabile significato non solo geografico ma anche storico, politico, culturale.
Durante la seconda guerra mondiale è stato il fulcro della Linea Stalin, teatro dei combattimenti nel corso dei quali l’Armata Rossa impedì ai nazisti di sfondare verso la capitale ucraina. Era sulle sponde di quel fiume che collegava il Baltico al Mar Nero che si è forgiato nei secoli lo spirito slavo comune ai due popoli.
Ma il Dnepr è anche un corso d’acqua che ha diviso nel tempo due culture: ad occidente quella asburgica e mitteleuropea, come testimoniano città come Leopoli e Odessa; ad oriente quella russa, che si spinge fino agli sterminati territori del nord-est, dove la “grande anima Russa” si fonde con l’Asia dei Mongoli ad oriente e con il tribalismo del Caucaso verso sud, sulle sponde di un altro grande fiume, il Don. Una convivenza difficile, da sempre, con i russi debitori agli ucraini del loro stesso nome, Rus.
Una religione comune (fino al 2018, quando gli ucraini si staccarono dal Patriarcato di Mosca per unirsi a quello di Costantinopoli) nata, come ripete il metropolita Onuphry di Kiev, dalla stessa fonte battesimale del Dnepr -ecco che ritorna il fiume- e che però non ha impedito tante crisi profonde tra i due popoli.

Durante il periodo dell’Unione Sovietica, i rapporti tra i due stati attraversarono momenti di alterna conflittualità. Infatti ai propositi di Lenin di dotare ogni Repubblica che componeva l’URSS di una larga autonomia (secondo il principio leninista che i membri della Federazione degli Stati Sovietici dovessero avere pari dignità) seguirono le decisioni assunte da Stalin con i processi di russificazione forzata imposti dalla russia alle altre Repubbliche Sovietiche.
Le cose cambiarono a quel punto, e molto, non solo per le Repubbliche dello “Stan” dell’Asia Centrale, di quelle del Baltico o di quelle del Caucaso, ma sopratutto per gli slavi dell’Ucraina. Le politiche agricole perseguite dal “granaio dell’URSS”, contenute negli sballati piani economici quinquennali, provicarono nei primi anni Trenta una carestia che uccise quattro milioni di persone.
Gli storici sono concordi nel ritenere che è questo il motivo per cui gli stessi invasori tedeschi furono in seguito accolti quanto meno senza grandi ostilità da parte della popolazione ucraina, a lungo vessata dalle politiche di sfruttamento perpetrate da Iosif Stalin ad ovest del Dnepr. E non si può escludere che il processo di destalinizzazione attuato fra il 1956 ed il 1961 non fosse in qualche modo legato alle origini dell’allora Segretario del PCUS, l’ucraino Nikita Kruschev, che pure fu uno dei collaboratori di Stalin.

La normalizzazione interna che seguì alla Guerra Fredda sterilizzò molti dei conflitti tra i due paesi, destinati a separarsi il 24 Agosto 1991 con la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina dalla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), e con la dissoluzione della URSS. Tale dissoluzione fu accelerata, per ironia della Storia, dai fatti di Chernobyl, accaduti proprio in territorio ucraino, nella cittadina di Preypat, al confine con la Bielorussia, una crisi che svelò la profonda inadeguatezza i tutto sistema sovietico.
Quella di Putin è una nazione che comunque non ha mai rinunciato all’idea di inglobare l’Ucraina nella Santa Russia, e soprattutto non ha mai rinunciato al proposito di esercitare, in diverse forme, l’egemonia culturale su quel paese al quale più di ogni altro, tra quelli nati dalla dissoluzione della Unione Sovietica, è legato a doppio filo per tanti altri motivi storici e culturali, oltre a quelli sopra detti.

Allora, dato che l’intervento bellico non ha ancora sortito gli effetti sperati da Putin -vista la resistenza degli ucraini non è stata possibile una conquista lampo- è altamente probabile che la soluzione che perseguono i Russi sia quella di prorogare quanto più a lungo le trattative. Questo consentirebbe alla Russia di avere il tempo di conquistare quanti più territori possibili, per poi arrivare a proclamare in una qualsiasi delle città ad est del Dnepr un Governo filo-russo, come è già accaduto nel Donbass con le Repubbliche autonome di Lugansk e Donetsk, non a caso riconosciute dalla Duma e dal Governo di Putin nella imminenza dell’attacco a Kiev.
A quel punto la disgregazione territoriale dell’Ucraina coinciderà almeno con le ambizioni minime dì Putin: riunire alla Madre Patria Russia quanto meno le popolazioni russofone, tenendo a distanza i possibili missili della Nato dal Cremlino. Quei trecento chilometri che dividono l’attuale confine ucraino dalla Piazza Rossa sono troppo pochi per far dormire tranquilli gli oligarchi russi e lo stesso Vladimir Putin.
Antonio Buttazzo

Avvocato e giornalista, coltivo un’antica passione per l’America Latina e l’Europa Orientale. Ma resto comunque convinto che non esista un paese che non valga la pena di essere visitato. E mi sono regolato di conseguenza. Siccome arriva sempre il momento in cui ti rendi conto di sapere meno di quanto pensi, mi sono rimesso a studiare e quelle quattro cose che so ho deciso di spacciarle su Deep Hinterland. Senza pretese che esse siano risolutive dei dubbi di chi legge, anche perché penso che ognuno farebbe bene a tenersi stretti tutti i suoi affanni. Alla fine, sono convinto, tornano sempre utili.