Di Jason Hickel, traduzione di Dario de Leonardis.
Il 4 marzo, Bernie Sanders ha pubblicato una dichiarazione in cui affermava: “Per 250 anni, gli Stati Uniti hanno sostenuto la democrazia”. In questa presa di posizione, Sanders esprimeva preoccupazione per la svolta autoritaria intrapresa dall’amministrazione Trump, che a suo avviso viola una tradizione secolare di principi democratici americani, sia in patria che all’estero. Affermazioni di questo tipo sono comuni tra i politici statunitensi. Biden, per esempio, ha spesso definito gli Stati Uniti un “faro della democrazia”, così come molti altri Presidenti prima di lui. La dichiarazione di Sanders evidenzia semplicemente quanto sia diffusa questa narrazione negli Stati Uniti, attraverso l’intero spettro politico del Congresso.
Si può comprendere l’argomentazione di Sanders, ma l’affermazione sul ruolo degli Stati Uniti nei confronti dei sistemi democratici è fondamentalmente errata. Le prove storiche che la smentiscono sono, infatti, schiaccianti. Gli Stati Uniti non sono stati fondati come una democrazia. Al contrario, sono stati fondati come un regime di apartheid, caratterizzato da disuguaglianza istituzionalizzata basata su razza, genere e classe, e governato come un’oligarchia. Questa non è un’esagerazione, ma una realtà ben documentata.

Al tempo della loro fondazione, gli stati americani limitavano il diritto di voto ai maschi bianchi proprietari di beni (ovvero circa il 6% della popolazione). La classe lavoratrice, le donne, gli indigeni e le persone di colore erano, nella stragrande maggioranza dei casi, escluse dal voto. Praticamente tutte le persone di colore erano soggette a schiavitù di massa e non avevano alcun diritto (essendo di fatto considerati come merci da un punto di vista legale), mentre i Nativi Americani erano vittime di pulizia etnica e genocidio sponsorizzati dal governo.
Il criterio della proprietà fu completamente abolito solo nel 1856. Le donne non ottennero il diritto di voto fino al 1920. Per i Nativi Americani, si dovette attendere il 1948. La segregazione razziale, il sistema di apartheid statunitense, non fu completamente eliminata fino al 1964. E solo nel 1965 i diritti di voto furono formalmente garantiti a tutte le minoranze. È importante sottolineare questo punto: gli Stati Uniti non hanno avuto il suffragio universale fino al 1965, quasi 190 anni dopo la loro fondazione. E, in ogni caso, il diritto di voto non fu concesso da un governo impegnato nei principi democratici, ma fu conquistato dalla classe lavoratrice attraverso lotte collettive organizzate.

Anche così, il livello di democratizzazione a cui sono soggetti gli Stati Uniti è anche oggi poco trasparente e molto discutibile. Il potere legislativo si trasferisce avanti e indietro tra due partiti sorretti e sponsorizzati dall’establishment economico del paese, entrambi tradizionalmente guidati da persone estremamente abbienti da ben prima di entrare in politica ed impegnate in molteplici interessi finanziari.
I partiti terzi (che pure esistono e sono molti) sono effettivamente esclusi dal processo politico nazionale, di fatto facendo politica solamente a livello extra-parlamentare. Le élite e le aziende possono spendere somme illimitate per finanziare le campagne elettorali di partiti e candidati, allo scopo di far eleggere politici che plasmeranno le leggi vigenti a loro vantaggio tramite un sistema di corruzione politica istituzionalizzata (il cosiddetto “lobbying”). La democrazia non può funzionare in queste condizioni.

Tutto ciò è confermato dai fatti. Uno studio del 2014 pubblicato dalla Cambridge University Press ha rilevato che l’attuazione delle politiche statunitensi segue generalmente le preferenze delle lobby aziendali organizzate, anche quando va contro le preferenze espresse nei sondaggi della maggioranza degli elettori. In altre parole, gli Stati Uniti assomigliano più a un’oligarchia che a una democrazia. Questo aiuta a dare un senso ai dati del Democracy Perception Index, che nel 2023 ha mostrato che solo il 54% degli Americani ritiene che il proprio paese sia effettivamente democratico, e solo il 42% afferma che il governo serve la maggioranza delle persone.
Fin qui la democrazia in patria. E all’estero? I politici statunitensi sostengono che gli Stati Uniti difendano da sempre la democrazia nel mondo. Ma, in realtà, il bilancio degli Stati Uniti in questo senso è per lo più l’opposto. Gli Stati Uniti intervengono regolarmente nelle elezioni straniere per alterare il processo democratico a favore dei propri interessi. Un recente studio dello scienziato politico Dov Levin documenta che gli Stati Uniti sono intervenuti in elezioni straniere almeno 128 volte tra il 1946 e il 2014, solitamente per impedire a partiti di sinistra di formare un governo o di rimanere al potere.

Nel XX secolo, gli Stati Uniti si sono attivamente opposti alle lotte di liberazione anticoloniale in Asia e Africa, che combattevano per la democrazia e l’uguaglianza dei diritti. Hanno sostenuto il regime di apartheid in Sudafrica (il governo statunitense ha collaborato all’incarcerazione di Mandela, inserendolo nella lista dei “terroristi” fino al 2008) e continuano a sostenere il regime di apartheid Israeliano. Gli Stati Uniti hanno inoltre ufficialmente riconosciuto ed appoggiato la dittatura di Pinochet in Cile, quella dello Shah in Iran, quella di Mobutu in Congo, quella di Franco in Spagna e molte altre. Questa tendenza continua ancora oggi: un recente rapporto pubblicato da Truthout ha rilevato che il 73% delle dittature del mondo riceve sostegno militare diretto dagli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti hanno anche una lunga storia di operazioni di cambio di regime forzoso in altri paesi, volte ad assicurare condizioni di egemonia geopolitica e sostegno alle proprie imprese operanti in quei luoghi. Accademici e giornalisti come Lindsey O’Rourke, William Blum e altri hanno documentato almeno 113 di queste operazioni dal 1949 a oggi, basandosi su documenti ufficiali (senza includere le operazioni condotte alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo sotto la Dottrina Monroe ed il Corollario Roosevelt). Metà di queste sono state perpetrate contro democrazie liberali o stati democratici centralisti. Gli Stati Uniti hanno notoriamente sostenuto colpi di stato ed omicidi a discapito di leader democraticamente eletti come Salvador Allende in Cile, Jacobo Arbenz in Guatemala e Patrice Lumumba nella Repubblica Democratica del Congo, tutti sostituiti da dittatori.

In sintesi, gli Stati Uniti non sono stati fondati come una democrazia, non sono stati una democrazia per la maggior parte della loro esistenza, soffrono oggi di gravi deficit democratici al punto da continuare a funzionare come un’oligarchia ed hanno una lunga storia di prevenzione, indebolimento e persino distruzione di governi democratici all’estero.
Questi problemi non sono cominciati con l’amministrazione Trump: sono una patologia strutturale del sistema statunitense. L’obiettivo politico per tutti i progressisti operanti negli Stati Uniti non dovrebbe essere quello di celebrarlo, ma di lottare per cambiarlo.
L’articolo originale in lingua inglese di Jason Hickel, Professore di Antropologia presso L’Università Autonoma di Barcellona, è disponibile qui.

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