Da piccola i miei genitori mi portavano sempre a visitare luoghi d’arte. Le classiche due settimane di vacanze estive si suddividevano in due parti, la prima al mare, la seconda nei musei e nelle chiese, i cosiddetti “sacrestia tour”. Del mare non ricordo quasi nulla, delle opere quasi tutto. Il resto dell’anno però non era meno indefesso. Venivano infatti organizzate gite mirate, se non a km zero, nelle regioni limitrofe. Ricordo ancora quando, a sei anni, mi portarono al Palazzo Ducale di Mantova, proprio quello con cinquecento stanze, e visitammo ogni angolo permesso. In cinque ore non emisi nemmeno un guaito.
Fortuna volle che io sia nata in Lombardia ed il Veneto sia confinante. Quindi una delle visite più ambite fu Padova. Partimmo alla volta della Basilica di Sant’Antonio, ma la cosa che mi ricordo di più, oltre al gusto tetro e così attraente delle reliquie che fanno tanto Mala del Brenta, fu il monumento equestre del Gattamelata di Donatello, la prima opera metallica così grande e così epica fusa dall’antichità. Non perché fossi un’appassionata
di condottieri rinascimentali, quello era mio padre, ma mi rimase impresso il nome. Lo ribattezzai tristemente Miciamelata e me lo immaginavo una gatta pelosa e bisbetica con un casco ricavato da una croccante mela rossa.

Il Miciamelata probabilmente non era bello (come di fatto ci ricorda Donatello nella sua gigantesca opera padovana dove non lo idealizza come si faceva nella classicità), ma era una vera e propria forza della natura. Lo scultore infatti ne raffigura la determinazione, l’integrità, la grinta, la fierezza, insieme all’età avanzata. Come sapeva mischiare il dolce e l’amaro Donatello, pochi altri. Eppure esiste un altro ritratto molto interessante e intenso, seppur dibattuto, dello stesso condottiero, quello di Giorgione agli Uffizi.

Come ogni aspetto riguardante Giorgione e la sua pittura, anche quest’opera è controversa.
Qualcuno riconosce il Gattamelata assieme a suo figlio Antonio, altri Bartolomeo d’Alviano (coevo a Giorgione), altri ancora Clito, luogotenente di Alessandro Magno. Quest’ultima ipotesi rimanderebbe addirittura ad Apelle ed alle abilità pratiche di restituire una luce vivida e penetrante sul metallo dell’armatura. In fondo però di chi sia questo mascellone capelluto a noi poco importa, ci interessa piuttosto sottolineare come un guerrafondaio, poco docile e grande stratega sia stato qui magistralmente ritratto.

E’ imbarazzante trovare qualcosa che sovrasti gli altri fra tutti i motivi che rendono questo dipinto fenomenale, dagli incroci prospettici di dita/mazza/spada/braccia/profili alla luce, lo sguardo e tutto il resto. Ma a me qui spezzano le mani. Sono eleganti e forti, pulite (!) e longilinee. Una parte di me non se le immagina affatto così signorili quelle di qualcuno “cattivo”, che sgozza e smazza in guerra. Invece da queste dita sudano nobiltà e fierezza del nostro Erasmo Stefano da Narni, Narni, ideale e reale allo stesso tempo.
Il condottiero in posa ci indica la calata e l’elsa e si prepara per lo scontro come qualcuno che esce per comprare l’ibuprofene: sicuro, naturale e perfettamente certo che a breve sconfiggerà i nemici, in un caso altri militari e in un altro i dolori reumatici. Non stupisce che Giorgione, nella sua totemica grandezza, sia proporzionalmente mito tanto quanto talentuoso pittore, misterioso e incisivo. Uno scossone rivoluzionario per tutta la Scuola Veneta e non solo.
Già che siete a Firenze e amate pure i cattivi, il consiglio è che dagli Uffizi vi spostiate a Santa Maria Novella. E ci passate per forza, visto che se non siete dei fortunati
fiorentini ci prenderete il treno. Presso il Chiostro Verde, all’interno dell’incredibile complesso domenicano policromo, sono conservate opere di Paolo Uccello[1], maestro della prospettiva, della matematica e delle chiappe di cavallo.

Sono gli affreschi più significativi di questa parte del gruppo di edifici monastici e rappresentano le Storie della Genesi. La spinta prospettica, la scelta di alcuni dettagli dell’abbigliamento, oltre che ovviamente degli elementi naturali e architettonici, sono tutti impegnati nel catturare l’osservatore verso le scene ambientate in un altrove irreale.
La parte che mi ha colpito di più è la scena del “Peccato Originale”.
Negli stessi anni, 1424-1425, Masaccio affresca la Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a pochi chilometri da lì. Con “Cacciata dei progenitori dall’Eden” distrugge l’idea stessa che Adamo ed Eva ci siano davvero mai potuti entrare nel paradiso terrestre, tanto sono devastati dal dolore e dalla loro nudità, tanto sono veri e in un contesto più reale del vero nella loro plasticità. Masaccio è l’hangover pulsante della sbronza di mele del giorno prima.

Per Paolo Uccello invece non è così. Adamo ed Eva hanno le forme delle Grazie, sinuosi e ben bilanciati si allungano e cedono al peccato. Lei è una malsana manipolatrice, lui un vegano incallito drogato di mele che crolla manco fosse Biancaneve. Oltre alla condivisione dei beni hanno anche quella dei peccati. Nonostante tutto sono posati, perfetti, rosei, la quiete prima della tempesta. Masaccio probabilmente rideva nel suo angolo.

Ignorando l’antico adagio che suggerisce di non mettere dita (e unghie sporche) tra moglie e marito, ecco che spunta tra loro il diavolo tentatore, un serpentone (che come minimo viene da certi luoghi pericolosissimi dell’Australia) con una testa di donna. Un elegantissimo profilo con dei riccioli grafici di un rosso incredibile è rivolto verso Eva e la convince a cogliere la mela della conoscenza. Probabilmente vista l’avvenenza della donna-serpentone in questione, la missione venne svolta senza nemmeno troppa fatica.
Forse il serpentone è la “Lei“ di cui canta Patty Pravo in Pensiero Stupendo, che “nasce un poco strisciando“, lo splendido e irresistibile stereotipo personificato della malefica e cattivissima tentazione. Avrei voluto conoscere la modella che ispirò il grandioso Paolo ed abbracciarla per aver reso il mondo un posto migliore, anche se dalla parte dei maschilisti.

Anche perchè a me questa cosa che il cattivo è un serpente che mi offre una mela e pure la
conoscenza in cambio di essere cacciata da un giardino dove vivo da sola, senza un rastrello, con uno che dice che al mondo esiste solo lui e che io vengo da una sua costola, non ha mai convinto. In fondo questo tanto vituperato serpente non può essere poi così cattivo se mi libera da una prigione di ignoranza e sottomissione.
Note
[1]: Paolo Uccello è uno di quelli nati nel posto giusto al momento giusto perché aveva come quasi coetanei altri personaggi del calibro di Masaccio e Beato Angelico, attivi tutti a Firenze nello stesso periodo. Di questa cosa non so darmi pace.

Arianna Tinulla Milesi è artista, illustratrice multimediale e nasce a Bergamo prima della caduta del Muro di Berlino. Si laurea in Arte Bizantina alla Statale di Milano e successivamente in Arti Visive – illustrazione allo IED. Al centro della sua pratica c’è il disegno come forma mentis, un tramite e mai un fine. Collabora internazionalmente con spazi espositivi, gallerie e musei. Le interessano le interazioni, la memoria, il folklore e la devozione, la percezione della violenza e il concetto di limite. Dal 2024 collabora con l’Orto Botanico di Toscolano Maderno parte dell’Università di Milano, per promuovere il disegno sperimentale come approccio libero verso il mondo naturale e non.
Questo le ha fatto venire in mente che potesse essere una buona idea partire alla volta del Galles per partecipare alla Mawddach Residency e studiare le alghe, il suo terrore più grande. Arianna è membro del Council della Society of Graphic and Fine Art, l’organismo che si cura di promuovere l’arte del disegno dal 1919 nel Regno Unito e nel mondo. I suoi lavori sono esposti presso istituzioni artistiche in varie parti del mondo e non sempre vogliono tornare a casa. Ama Piero della Francesca e Paolo Uccello, la sua power couple preferita sono Raffaello e Pietro Bembo, la gamma di colori dal vermiglio al lampone, sulle labbra e nei vestiti, i capelli estremamente corti, Adrien Brody vestito da Salvador Dalì, accarezzare gli animali e cantare a squarciagola. Ha adottato un gatto di nome Pilade, ricama e si produce vestiti con alterna fortuna, legge Giada Biaggi e Hilary Mantel, ascolta Paolo Conte, PJ Harvey, Fred Buscaglione e prova a fare snorkeling nel lago di Garda. Tra i suoi appuntamenti per il 2025 ci sarà un percorso di ricerca come artista in residenza presso la School of Art & Design dell’Università di Nottingham Trent all’interno del progetto AA2A. Il suo motto è: “Adoro i piani ben riusciti” e “Ogne melù al g’ha la sò stagiù”.