“Buttare via la chiave”: reati violenti, disagio carcerario e recupero sociale

Chiudeteli dentro e buttate via la chiave” è un’espressione a cui siamo abituati da tempo. Una frase talora pronunciata “di pancia”, a fronte di mali efferati: crimini sessuali, orrori sui minori, atti di sadismo contro esseri indifesi o contro handicappati. Animali bruciati vivi e torturati per puro divertimento.

Anni fa, la moglie di un conoscente fu aggredita da due uomini, tornando a casa dopo aver fatto acquisiti. Fu trascinata sotto un trafficatissimo ponte e lì violentata e torturata per ore, fino a morire. Nessuno udì le sue urla disperate, coperte dall’intenso rumore soprastante: morì alle sette di sera, sotto il cavalcavia di uno snodo stradale. Ho pensato mille volte alle sue ultime ore di agonia, alle sue grida folli, dapprima per il panico, poi per l’orrore. Ho immaginato tutte le sue lacrime, le accorate preghiere di smettere, fino a impazzire, fino a non riuscire a chiedere più nulla, fino a desiderare solo di morire.

Se ne è andata così: non ha fatto neanche notizia. Poche righe sui giornali di allora. In casi come questo, e nei casi di pedofilia, di sadismo et similia, rimaniamo attoniti, paralizzati dall’orrore. Allora anche noi pensiamo “chiudeteli dentro e buttate via la chiave”; è una reazione umana, di fronte all’orrore. La vittima merita giustizia e così i parenti o gli amici che restano, resi sonnambuli dal dolore.

Seppur in quasi costante calo da oramai quasi 30 anni, i reati violenti sono ancora percepiti come una delle principali fonti di insicurezza sociale da parte dell’opinione pubblica italiana. Photo credit: Altervista.

Ma anche di fronte a crimini come questo, siamo realmente certi che il carcere duro, quello in cui “si butta la chiave”, renda davvero giustizia alle vittime? Quale vantaggio può recare, a ben vedere, ai poveri superstiti di violenze siffatte, la circostanza che l’aggressore “marcisca” in carcere? A parte una sottile soddisfazione psicologica, per vero non scontata e neppure presente in tutte le persone offese, il progressivo impazzimento dell’aggressore all’interno di un claustrofobico vano chiuso non aiuta nessuno. Non restituisce ai poveri genitori il bimbo ucciso, non riporta alla vita la ragazza spezzata da violenze crudeli.

Intendiamoci, crimini di questo tipo sono ingiustificabili e meritano una reazione esemplare. Anzi, normalmente criminali di questa fatta non hanno vita facile all’interno del carcere. Invero, nella mentalità di chi è assiduo frequentatore le patrie galere, i reati si distinguono in senso etico proprio in base alle modalità di commissione. Il sadico, il torturatore in carcere è finito: è come se venisse condannato due volte. “Gli altri” solitamente riescono a trovare forme di sopravvivenza, una volta superato l’impatto dell’ingresso.

Cella di isolamento presso il carcere Regina Coeli di Roma. Photo credit: Centumcellae News.

Gli altri” sono in primis gli spacciatori, i quali affollano in maggioranza le carceri italiane, anche in considerazione delle pene davvero severe previste per questo tipo di reato. Nell’ottica culturale criminale, lo spacciatore è un venditore di merce proibita, uno che fa affari. Certo, l’oggetto delle negoziazioni è vietato dalla legge. Ma, nell’immaginario della malavita, si tratta pur sempre affari.

Ecco perché lo spaccio è considerato dalla Sorveglianza Carceraria un reato, al tempo stesso, di scarso allarme sociale e di alta recidività. Di scarso allarme sociale, perché si rivolge non a tutti ma a una specifica fetta di clientela: i tossici. Di alta recidività, perché è innegabile che in certi ambienti spacciare è sinonimo di lavorare: esistono intere aree urbane ove lo spaccio costituisce l’occupazione principale della maggior parte dei residenti. Chi nasce in territori di questo tipo è destinato a fare lo stesso lavoro del padre, dello zio, e – nei casi più fortunati – della madre, salvo improbabili miracoli della scuola, dell’oratorio o della biblioteca di quartiere. Nell’ottica della popolazione carceraria, quindi, normalmente non c’è nulla di immorale nello spacciare. E’ un’occupazione ben compresa e quasi eticamente motivata: ci si mantiene la famiglia.

Sequestro di sostanze stupefacenti presso il Carcere di Fuorni, in provincia di Salerno. Photo credit: Il Quotidiano del Sud.

“Gli altri” sono anche gli assassini; persino l’omicidio doloso in carcere può essere giustificato, se fondato su “valide ragioni”. Un rivale commerciale, un amico traditore, un “infame” che ha denunciato il reo alla polizia, chi ha fatto del male. Nella mentalità criminale questi soggetti hanno posto in essere comportamenti che giustificano la morte; una meritatissima morte. Non è giustificato chi tortura, chi stupra, chi gode del dolore fisico altrui. Ma chi uccide dolosamente una determinata persona è spesso accettato e compreso.

Ecco perché l’omicida, normalmente, ottiene i permessi premio più facilmente dello spacciatore: il tasso di recidività degli assassini consapevoli è, infatti, piuttosto basso. Anzi, più è intensa la premeditazione, più è basso il tasso di recidività. Una volta ucciso un determinato soggetto, il bersaglio è centrato: è difficile una reiterazione. Lo spacciatore, invece, anche in permesso, torna subito a “lavorare”.

Gli “altri”, ancora, sono i rapinatori, i ladri, i bancarottieri, i truffatori: tutti sono tollerati e persino compresi dalla comunità carceraria. La morale dei ristretti sovente diverge dalla morale dei liberi, e, quasi mai, coincide con la morale dei social. Anzi, a ben vedere, salvo i casi di delitti crudeli, in carcere non conta più il reato commesso: neppure lo si chiede. Conta il presente, come ci si comporta dentro.

Sovraffollamento carcerario presso il Carcere di San Vittore, a Milano. Photo credit: Corriere Milano.

In ogni caso, che siano crimini giustificabili o che non lo siano, è imprescindibile mantenere un rapporto con il mondo esterno nell’ambito di un percorso di recupero: laddove ciò non accada, il sistema carcerario, per come è concepito oggi, è destinato a fallire. E’ destinato a fallire economicamente ed eticamente.

E’ un fallimento economico dello Stato perché il sistema penitenziario è uno dei principali costi del Paese. A prescindere dalle nostre posizioni ideologiche, un detenuto recuperato è un risparmio di spesa per lo Stato. E’ una persona che ha possibilità di essere reinserita, di portare lavoro e soldi alla società civile. Se non si recupera, è certo che torna a delinquere, e perciò a costare. A costare a noi, proprio a noi, a tutti i contribuenti.

Perché tenere un detenuto in carcere “e buttare la chiave”, come si sente dire, non è una scelta priva di costi. Costa enormemente allo Stato. Non solo per mantenere la persona, ma anche in termini di personale, banalmente di biancheria, di medicine, di tutto ciò che serve. Ecco perché è molto utile (anche alle signore e ai signorini di buona famiglia che si scandalizzano tanto) recuperare i detenuti. E’ un enorme risparmio sia di spesa che fiscale.

Il costo dei detenuti in Italia. Photo credit: poliziapenitenziaria.it

Il mancato reinserimento del detenuto in società è anche un fallimento etico dello Stato per il semplice fatto che un detenuto recuperato deve essere accettato. Tutti pensano allo shock dell’ingresso, al cancello che si chiude, alla vita di restrizione. Nessuno pensa mai allo shock della serratura che si ritrae, al cancello che si apre per farti uscire.

Ho conosciuto un detenuto che fu arrestato e condannato a 30 anni per omicidio. Ha passato tutti e 30 gli anni in carcere, partecipando a un buon percorso di formazione. Nel corso della detenzione si è completamente riabilitato; ha vinto un premio di letteratura, ha insegnato agli altri a scrivere, a leggere. Li ha aiutati a studiare. Era lui quello bravo, quello a cui gli altri si rivolgevano per scrivere le istanze. Era davvero qualcuno.

E’ uscito a 60 anni, avendo usufruito di pochissimi permessi premio poco prima della liberazione. Nessun contatto con il mondo civile, mai un affidamento in prova, mai un lavoro all’esterno, una vita all’interno di quelle quattro mura. Uscito dal cancello, con la sua valigia piena di libri e la sua maglietta strappata, è iniziato l’inferno; quell’inferno che lui aveva presagito nei mesi precedenti, divenendo sempre più insicuro e nervoso.

Corsi di formazione professionale miranti al reinserimento sociale dei detenuti presso il Carcere di Capanne, a Perugia. Photo credit: Perugia Today.

Ha cercato di farsi accettare dalla comunità dei liberi. Ha cercato un lavoro, da sessantenne. Ma per i signori della fedina immacolata egli era un rifiuto, una nullità, un uomo invisibile. Lo incontravo fuori dei cancelli del carcere, sempre più logoro, sempre più folle. Mi diceva: “io voglio farcela, ormai sono una persona diversa, ce la farò”. Ma il tono era incerto: non ci credeva neppure lui. Le guardie penitenziarie mi confidavano che chiedeva di rientrare.

E un’immensa pietà ci accumunava, in un abbraccio invisibile. Nella certezza di non poterlo aiutare in alcun modo, neppure tramite la Caritas, che lui rifiutava. In fondo, aveva studiato tutta la vita. A pochi mesi dalla liberazione l’hanno trovato morto in un deposito di auto da rottamare: la sua povera anima aveva ceduto all’impatto col mondo civile. Al funerale eravamo in cinque. In casi come questo, buttare via la chiave significa anche buttare la chiave del proprio cuore.

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