Angeli, carnefici, vite di donne: intervista alla scrittrice Cinzia Tani

In una sera ancora mite di questo autunno inoltrato vado a trovare Cinzia Tani, scrittrice elegante e sensibile. Appena entro, rimango subito impressionata dalla casa, ove grandi biblioteche di caldo ciliegio corrono lungo tutte le pareti, bagno compreso. La presenza di così tanti libri, tra gli innumerevoli scaffali, trasmette un misterioso senso di protezione. E’ come se queste smisurate librerie, e la formidabile opportunità di lettura che offrono, costituiscano un presidio di bellezza e di speranza, a mo’ di barriera contro le brutture del mondo. Un luogo dove ci si ferma. Ci immerge nella lettura e nello studio, e si compie il più bello dei viaggi: quello dell’anima e della fantasia. E tutto il resto rimane fuori.

“Tra guerra e pace i libri fanno la differenza”[1], effettivamente. Ed è qui, in mezzo ai libri, che vive Cinzia Tani che ha fatto della lettura e della scrittura una ragione di vita, il suo stesso respiro. E’ docente di scrittura alla Luiss e ha pubblicato oltre 40 libri, tra saggi e romanzi. Impossibile citarli tutti. Tra i più amati: L’insonne (Mondadori, 2007), che narra dei crudeli esperimenti del Dr. Krieger, un medico nazista, su bambini e adolescenti e dell’incontro del figlio di costui con due sue vittime; Lo stupore del mondo(Mondadori, 2010), ambientato nel 1200, ove le vite dei protagonisti si intrecciano con le vicende politiche alla reggia di Federico II; e Angeli e Carnefici (Rizzoli, 2021), che ripercorre la storia di 22 donne vissute tra ottocento e novecento: 11 angeli e 11 spietate assassine.

La copertina di “Angeli e carnefici” di Cinzia Tani (2021). Photo credit: Rizzoli Libri.

Per trent’anni è stata autrice e conduttrice di programmi culturali per la RAI e oggi è opinionista in diverse trasmissioni televisive. Non c’è da stupirsi che sia Cavaliere della Repubblica per meriti culturali. Ha anche insegnato “Storia Sociale del Delitto” alla Sapienza e, fra i suoi libri, moltissimi sono dedicati a episodi di cronaca nera, sovente anche in contesti storici. Ma sopra ogni cosa, Cinzia Tani è una persona autentica. Ha un sorriso franco e schietto. “Chissà quanto le sono affezionati gli studenti”, penso.

Ciò che più mi incuriosisce di Cinzia e, nello stesso tempo me la rende vicina, è il fatto che abbia a lungo insegnato scrittura a decine di allievi detenuti in svariati carceri d’Italia. Un mondo che conosco bene, autentico e vischioso al tempo stesso. Autentico, perché in carcere cadono tutti i veli e tutte le sovrastrutture; non si può fingere, è un bagno di umiltà. Vischioso, perché il carcere è come la resina: ti lega e ti trattiene con un fortissimo collante trasparente. Non puoi distaccarti, mai. I carcerati ti aspettano. Sanno quando arrivi, e tu non puoi mancare, non ce la fai. Una volta ho saltato un appuntamento e un mio studente senegalese ha camminato in tondo per un’ora e mezzo…aspettando, aspettando, e aspettando, in un piccolo cerchio folle.

La scrittrice, conduttrice televisiva e storica del delitto Cinzia Tani. Photo credit: Mangialibri.

Immagino Cinzia protesa verso questo mondo di ristretti, talvolta violenti, talvolta miti, soprattutto disperati. Ha trasmesso, o tentato di trasmettere, la grande arte della scrittura, preparando le lezioni, rispondendo alle domande, correggendo con pazienza i lavori, raccogliendo così un pezzettino dei loro cuori. Mi viene in mente Antonio, il detenuto morto poco dopo essere uscito da una lunghissima carcerazione, non essendo sopravvissuto all’impatto con la cosiddetta “società civile”. Era fiero di aver vinto un premio letterario, lo diceva a tutti. E ci leggeva, orgoglioso, il suo pezzo vincitore. Mi piace pensare che possa esser stata proprio Cinzia Tani a decidere quella assegnazione; il periodo coinciderebbe.

E questo interesse di Cinzia Tani verso chi soffre, che siano persone maltrattate o che siano vittime di reati, la rende incantevole agli occhi dei suoi lettori, me compresa. I suoi libri si dedicano esattamente a questo. E così, a bassa voce, cominciamo a parlare di sofferenza.

Già nel 2012, quando ancora si parlava poco e di violenza sulle donne, tu scrivevi il bellissimo libro “Mia per sempre. Come spieghi il fenomeno del femminicidio?

Cominciamo col dire che femminicidio è un termine sbagliato perché rimanda all’idea sprezzante della “femina”, l’animale di sesso femminile. La definizione esatta per l’uccisione di una donna da parte del partner è femmicidio, come chiarito da Diana Russell e Jill Radford.[2]. Il termine “Femminicidio”, (feminicidio in spagnolo), in realtà, è stato coniato dall’antropologa messicana Marcela Lagarde che ha così descritto gli assassini in larga scala commessi sulle donne a Ciudad Juarez, in Messico[3]. Per Femminicidio la Lagarde intende tutto ciò che nel mondo viene commesso ai danni di una donna.

Comunque ormai il termine comune è adottato dalla generalità dei media. Ma in qualsiasi modo lo vogliamo chiamare, è certo che il fenomeno rappresenta un gravissimo problema sociale da prevenire e da combattere con serietà e costanza.

Nelle conferenze che faccio sull’argomento capita spesso che alcuni uomini mi dicano che il femminicidio è sempre esistito. Non è vero! L’omicidio della compagna di vita avveniva sporadicamente, spesso all’esito di tradimenti coniugali, e, in tali casi, veniva punito davvero blandamente. In Italia, fino al 1981, un delitto commesso al fine di salvaguardare l’onore, come l’uccisione dell’adultera o del suo amante, era sanzionato con pene assai ridotte rispetto all’analogo delitto comune, con diverso movente[4].

Il fenomeno nasce con l’emancipazione femminile. Nel passato l’uomo non uccideva la moglie visto che lei non si sognava neppure di sottrarsi alla sua volontà e spesso alla sua violenza. Non c’era il divorzio, la donna non lavorava, non aveva alcuna indipendenza; era costretta a rimanere in casa e sopportare. Perché mai l’uomo avrebbe dovuto ucciderla?

L’antropologa messicana Marcela Lagarde, inventrice del termine “femminicidio”. Photo credit: Wikipedia.

Secondo le tue ricerche, quali modalità vengono utilizzate per uccidere le donne?

L’arma da fuoco è il mezzo più diffuso per uccidere. In alcuni paesi e in certi Stati americani si può comprare una pistola con la stessa facilità con cui si acquista un paio di scarpe in un supermercato. Le armi da fuoco vengono preferite perché consentono un omicidio pulito, a distanza, senza che le mani si sporchino di sangue, come avviene, ad esempio, con un’arma da taglio. E senza toccare il corpo della vittima, come è necessario per strangolarla.

In Italia è piuttosto facile comprare un’arma da fuoco per difesa personale se si trasporta denaro o si vendono preziosi, se si svolge una professione a rischio, se si corre il pericolo di un sequestro o per uso sportivo. In circa la metà degli omicidi coniugali commessi da un uomo, un’arma da fuoco era presente in casa nell’anno che ha preceduto il delitto. In caso di aggressione, la probabilità che la donna perda la vita è sideralmente maggiore se l’uomo è già in possesso di un’arma da fuoco.

Nel caso in cui l’assassino non abbia a disposizione una pistola o un fucile, normalmente ricorre al coltello che trova nel cassetto della cucina o che porta con sé con il proposito di minacciare o di uccidere. Ma nel momento della rabbia l’uomo afferra qualsiasi oggetto. Nei casi studiati ho trovato: martelli, seghe elettriche, asce, cavi elettrici, forbici, un taglierino, un mattone, una pietra, una spranga, un piccone, un matterello, una tanica di benzina per appiccare il fuoco.

E nel dir questo sorride lievemente, quasi a voler esorcizzare il male. Penso con orrore alle grida di chi viene bruciata viva. Alla ferocia di chi appicca il fuoco. Non si può immaginare il calvario che deve aver subito, per esempio, l’atleta Olimpica Rebecca Cheptegei, arsa viva dal suo fidanzato.

Secondo i tuoi studi, in quali luoghi avvengono questo tipo di omicidi?

Se l’uomo ha deciso di uccidere riuscirà a farlo. Porterà un’arma con sé, e, se ha anche in mente di togliersi la vita, si trasformerà in una vera e propria bomba, pronta a esplodere. Secondo me questi assassini somigliano ai terroristi kamikaze: riescono sempre a compiere le stragi che hanno preparato proprio perché sanno di dover morire. Questo li rende invincibili: non devono nascondersi, non hanno bisogno di individuare una via di fuga, possono agire con tutta la calma necessaria. Ogni luogo può trasformarsi nel teatro della carneficina: una piazza, un caffè, un mercato, un autobus.  

Molti uomini uccidono nei luoghi in cui la donna è più vulnerabile, come ad esempio la camera da letto. In diversi casi la scena del crimine è la cucina o il soggiorno dell’appartamento, in altri è l’automobile, che l’uomo ferma in aperta campagna o in vicoli isolati trasformandola in una trappola mortale.

Mi viene in mente “Lella”, una canzone romana degli anni ‘70, antesignana del tema del femminicidio, che narra l’omicidio di una donna, nella prospettiva dell’assassino[5]. Qui addirittura l’uccisione avviene all’aperto, “alla fiumara” vicino al mare, “tra reti e barche abbandonate”.

Cinzia, perché l’uomo uccide?

Le cause scatenanti di questi omicidi sono la gelosia e la separazione. Non si tratta di una gelosia normale ma delirante. Viene chiamata anche “sindrome di Otello”; il moro uccide Desdemona perché è certo che lei lo abbia tradito, anche se non ne ha la prova. Il fazzoletto è solo la miccia che fa esplodere il senso del possesso.

C’è poi la separazione: gli omicidi tra coniugi o compagni si verificano una volta su tre quando la coppia non vive più insieme. E’ un fenomeno nuovo, visto che nel passato era molto difficile che una donna intendesse o potesse separarsi. Gli aggressori hanno un bisogno ossessivo e a volte patologico di dominare la vita di colei che sostengono di amare. L’uomo uccide la compagna per impedirle di andarsene o, se è già andata via, per impedirle di iniziare una nuova vita.

Alexandre Marie Colin, “Otello e Desdemona”, olio su tela, 1829. Photo credit: Wikipedia.

Ripenso al capolavoro del Grande Bardo, secondo solo al “Mercante di Venezia”. Nell’Otello di Shakespeare, l’amore perde la propria essenza e si trasforma in un “inquieto bisogno di tirannide” che non arretra e, anzi, trova nutrimento dalle preghiere della vittima. “Uccidetemi domani, lasciatemi ancora vivere questa notte”, implora Desdemona “…mezz’ora soltanto”, povera anima benedetta.

Per quale ragione, secondo te, le donne subiscono questo tipo di maltrattamenti senza ribellarsi?

Ho conosciuto diverse donne che hanno subito, per anni, maltrattamenti da parte del marito. Perché non l’hanno lasciato? Perché a volte sono dipendenti economicamente da lui, altre volte pensano ai figli e non vogliono distruggere la famiglia, altre volte ancora hanno paura. La paura è anche il motivo per cui in molti casi non denunciano. Temono che lui, come purtroppo leggiamo troppo spesso nei giornali, si incattivisca ancora di più e le insegua per ucciderle.

I braccialetti elettronici sono molto utili ma, come abbiamo visto in questi ultimi mesi nel nostro paese, in troppi casi non hanno funzionato. Dobbiamo anche considerare che i maltrattamenti sono graduali e possono essere psicologici, fisici, sessuali, economici. La violenza fisica e quella psicologica sono strettamente legate. Nessun uomo comincia a picchiare la propria compagna all’improvviso: prima instaura un clima di tensione, di paura, con grida, ordini, minacce. Le donne perdono l’autostima. Vengono isolate dalla famiglia, dalle amicizie; a volte non possono studiare, lavorare e neppure avere un conto in banca. Sono donne vittime d’amore; hanno amato troppo e sopportato fino ad essere annientate.

Il bosco delle donne, fra sogno e realtà. Photo credit: Romatoday.

Nel salutarmi Cinzia mi confida di aver sognato uno splendido bosco dai colori meravigliosi e lucenti: rame, vermiglio, ocra, oro. La sua incredibile fantasia opera persino quando dorme. Scendendo per le scale cerco di immaginare questa magia notturna di alberi: ogni foglia, penso, è una di queste donne maltrattate.

Esco in strada. Fuori c’è silenzio, sento il rumore dei passi. Penso al martirio delle spose bambine, stuprate per legge. Penso alle vite recise di tutte le donne troppo innamorate. Non rimane traccia della loro esistenza se non il ricordo, confuso nella notte come un canto di mondine. Una brezza leggera sfiora gli alberi della città e allevia il peso dei cuori. E’ una sera quieta, brunita di stelle.

Note
[1] Slogan della manifestazione “BookCity” a Milano dal 10 al 17 novembre 2024.
[2] Russel D. H., Radford J.: Femicide: The politics of woman killing, 1992.
[3] Lagarde y de los Rìos M.M, Los cautiverios de las mujeres. Madresposas, monjas, putas, presas y locas, UNAM. México, 1993.
[4] Art. 587 c.p. abrogato: (Omicidio e lesione personale a causa di onore). Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella. Se il colpevole cagiona, nelle stesse circostanze, alle dette persone, una lesione personale, le pene stabilite negli articoli 582 e 583 sono ridotte a un terzo; se dalla lesione personale deriva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni. Non è punibile chi, nelle stesse circostanze, commette contro le dette persone il fatto preveduto dall’articolo.
[5] La canzone, per il tema trattato, fu censurata nel 1971 alla competizione musicale “Il Cantagiro”.

Lascia un commento