A cura di Vittorio Di Blasi
Forse può sembrare anacronistico parlare di pena di morte in un momento storico come quello odierno, nel quale l’opinione pubblica viene di continuo aizzata con messaggi d’odio e sobillata con rigurgiti giustizialisti. Tuttavia, credo che certi valori vadano riaffermati con più vigore proprio sull’onda di episodi di cronaca nera talvolta non mantenuti circoscritti in ambiti ristretti, ma volutamente utilizzati come appiglio per strumentalizzazioni variegate, ad uso e consumo dei media e della politica di ogni schieramento.
Non di rado, l’interpretazione in chiave sociologica di vicende aventi, invece, solo un significato puntuale, hic et nunc, causa più danni che benefici allo sviluppo di un dibattito in corso da tempo e soggetto a un lento ma maturo progredire. In altri termini, è proprio l’introduzione di plurimi elementi di disturbo ciò che, invece di accelerare, rischia di causare una brusca frenata se non addirittura una nociva involuzione della dialettica.
Dunque, oggi più che mai, bisogna prestare attenzione alle numerose tricoteuses jacobines che, ormai, non sono più passivamente sedute a sferruzzare sotto il patibolo, in attesa di veder cascare la testa di un condannato dentro una cesta, ma si trovano sparse ovunque a infestare i social, la politica e, pericolosamente, pure a dirigere le Istituzioni, infettando il sentire sociale col sanguinario verbo della vendetta. E, per conseguire tale finalità più o meno inconscia, ogni pretesto mediatico risulta buono.
Tuttavia, oggi c’è una ghiotta occasione per rilanciare in modo cristallino il dibattito sulla pena capitale grazie alla ricorrenza del 75esimo anniversario dell’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Un evento di portata storica, avvenuto il 10 dicembre 1948, quando l’Assemblea Generale dell’ONU approvò il documento col voto favorevole di 48 Stati membri, l’astensione di altri 8 e nessun pronunciamento contrario. Questo fu il punto di approdo di un complesso lavoro di ricucitura post-bellica, nell’ottica di gettare le fondamenta di una nuova società democratica universale. E, proprio a tal fine, furono enunciati e strutturati sia i diritti politico-civili che quelli economici di ogni individuo, a tutela della libertà e della dignità di tutti gli esseri umani.
Partendo proprio da questo evento storico, vorrei focalizzare la mia attenzione solo su due dei 30 articoli che costituiscono la Dichiarazione: l’art. 3 (“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”) e l’art. 5 (“Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti”). La condanna a morte di un essere umano, qualunque sia il crimine del quale venga accusato, rappresenta sempre e comunque una deflagrante violazione dei principi sanciti in questi due articoli. Su tale interpretazione si può essere solo tranchant perché, come vedremo, è l’evidenza stessa a palesare l’abuso arbitrario che viene di continuo perpetrato.
Innanzitutto, il fondamento giuridico secondo il quale uno Stato può arrogarsi il potere di uccidere un proprio cittadino viola il succitato art. 3, che di converso riconosce ad ogni individuo il diritto alla vita. Alla sua vita. L’esistenza in vita è un diritto proprio del singolo, come tale inalienabile, e nessun soggetto terzo, a cominciare dallo Stato, dovrebbe intaccarlo. E’ evidente l’incongruenza di riconoscere un diritto al cittadino e poi auto-attribuirsi la legittimità di inficiare tale diritto.
Per di più, analizzando la questione sul lato etico ed istituzionale, uno Stato mostra tutta la sua debolezza delegando l’amministrazione della giustizia al sentire del momento, millantando pure l’attuazione di una presunta volontà popolare (o, non di rado, addirittura “divina”). Gli strepiti forcaioli di un popolo toccato nel vivo da episodi di brutalità non di rado vengono alimentati con artate enfatizzazioni, meramente speculative. Quindi, va da sé che il discorso sia tanto tautologico quanto contraddittorio: lo Stato debole sobilla il desiderio di sangue per mostrarsi forte e, nell’offrire una presunta risposta muscolare, finisce, invece, col confermare l’impalpabile fragilità del proprio sistema di valori.
Sul fronte opposto, uno Stato forte reagisce, invece, a qualunque atto di violenza con una ponderata risposta di giustizia e non di barbara vendetta. E il colpevole del misfatto, il Caino di turno, viene preservato da una reazione istintiva, anche “a furor di popolo”, che sarebbe solo animalesca e di nulla valenza sociale.
D’altronde, non è stato mai prodotto alcuno studio che dimostri l’effettiva utilità della pena di morte quale deterrente alla criminalità. Quindi, agitare tale strumento quale ipotetica soluzione del problema è solo un modo per dire che, in realtà, non si sa e/o non si vuole affrontare la questione delinquenziale in modo efficace, ovvero risalendo alla fonte di un verosimile disagio collettivo o, con approccio più rassegnato, a quella dell’infermità psichica che, comunque, fisiologicamente, coinvolge una parte del genere umano.
Ciò che, invece, è certo – perché tangibile – è che la pena di morte sia un vero e proprio dispositivo di pulizia sociale. Non per niente, in ogni parte del mondo, a patire le conseguenze della sua applicazione sono per lo più: soggetti emarginati, persone psichicamente labili, appartenenti a minoranze etniche, oppositori politici o religiosi che – sovente – non hanno nemmeno istigato alla violenza, responsabili di reati economici o di delitti “morali”. Con la rapida esecuzione di un condannato ci si illude, pertanto, di risolvere un problema di ordine pubblico, di controllo delle coscienze o di tenuta politica interna di uno Stato, poco rileva se totalitario o se presunto esportatore di democrazia.
Per di più, non è stato mai provato che esistano dei metodi di esecuzione immediati, cioè in grado di garantire l’assoluta assenza di patimenti a un condannato. Pertanto, una sentenza di morte rappresenta un ulteriore abuso laddove viola le disposizioni dell’art. 5 della Dichiarazione, che vieta espressamente torture, punizioni crudeli, inumane e degradanti.
Al dolore e alla sofferenza fisica inflitte al prigioniero al momento dell’esecuzione, bisogna pure sommare la non indifferente tortura psicologica talvolta legata a una lunga detenzione preventiva prima dell’omicidio di Stato o, al contrario, lo smarrimento totale – nel baratro della disperazione – per una consegna al boia in modo immediato, appena dopo la lettura della sentenza di morte. E ciò spesso avviene senza poter far valere nemmeno alcuni diritti di base: salutare per un’ultima volta la propria famiglia, interloquire con un legale o valutare la possibilità di presentare un ricorso.
Insomma, il quadro è ancora questo anche se, ad oggi, secondo i dati forniti da Amnesty International, ben 144 Paesi del mondo hanno abolito la pena di morte dal loro ordinamento o, comunque, risultano abolizionisti de facto. L’Europa è una parentesi felice, con l’esclusione della Bielorussia e, parzialmente, della Federazione Russa che, nel 1996, ha solo approvato una moratoria delle esecuzioni. Nel mondo restano, tuttavia, ancora 55 Paesi mantenitori e, tra questi: gli USA, la Cina, l’Iran e l’Arabia Saudita. Insomma, la situazione resta oggettivamente grave ma ognuno può contribuire coi propri mezzi, per quanto in apparenza di portata limitata, all’affermazione di valori di assoluta civiltà.
Per quanto mi riguarda, dopo una lunga militanza come attivista per i diritti umani, da molti anni ho avviato e sto conducendo una piccola battaglia di nicchia per l’eliminazione da ogni contesto informativo e comunicativo del termine “giustiziare” o, quantomeno, per un suo uso limitato e virgolettato. Insomma, posto che una condanna a morte non è mai un atto di giustizia, ma solo una forma di auto-degradazione dell’umanità, il linguaggio utilizzato nel riferire di condanne capitali, a mio avviso non dovrebbe mai richiamare – neanche in senso etimologico – un’idea di giustizia. Un assassinio legalizzato non può in alcun modo essere accostato e/o equiparato ad essa. Gli aspetti comunicativi possono sembrare dei dettagli, invece risultano fondamentali per il profondo significato culturale che essi recano con sé.
In tutta sincerità, tale mio impegno non finora sortito i frutti sperati. Il tema è complesso, di scarso appeal mediatico, e presuppone un approccio certo non banale. Forse per tali motivi, nei 14 anni dalla creazione di uno specifico gruppo Facebook (“NO al termine GIUSTIZIARE – La pena di morte non è mai un atto di giustizia”) il successo non è stato eclatante, le adesioni spontanee davvero poche, la visibilità limitata ad un breve passaggio radiofonico su di una rete nazionale.
Tuttavia, non demordo, cerco di essere coerente a quest’impostazione per me ferrea. Rileggendo per intero quest’intervento, vi accorgerete che il termine “giustiziare” non è stato mai da me utilizzato. Da oggi provateci anche voi, non è difficile e così contribuirete ad un piccolo ma significativo cambiamento culturale per rinsaldare il concetto che la pena di morte sia sempre e solo un’emerita ingiustizia.