È diventato virale in questi giorni il caso della dirigente scolastica statunitense Hope Carrasquilla, costretta a lasciare il suo incarico alla Tallahassee Classical School in Florida a causa delle lamentele di alcuni genitori per la presenza di immagini del David di Michelangelo, considerato da essi “pornografico” in alcune lezioni. L’istituto in questione è una scuola privata legata all’Hillsdale College, un college dall’impostazione conservatrice piuttosto nota come in Florida ce ne sono molti.
La Florida, ricordiamolo, attualmente è uno stato a guida repubblicana, definito recentemente dal Wall Street Journal come “GOP hot spot” (ovvero un luogo dove il partito di Trump è particolarmente forte e attivo). In contesti simili, i tentativi di censura dell’arte e della letteratura in varie forme non sono una novità. ll Guardian parlava nel dettaglio delle censure di stampo religioso all’arte classica già nel 2016 e addirittura I Simpson avevano ironizzato sul malcontento che alcuni tipi di scultura provocano in certa gente nel lontano 1991, mettendo in scena proprio il David in blue jeans.
La stessa Carrasquilla nelle interviste rilasciate ha dichiarato che i genitori dei suoi studenti tendevano a protestare perchè molte delle materie trattate in classe non erano aderenti al panorama ideologico conservatore, comprese lezioni sul riscaldamento globale. Ed è cosa nota come nelle scuole della Florida il governo dello stato abbia vietato alle scuole di trattare qualunque tipo di argomento LGBTQ+ a causa di una legge soprannominata “Don’t Say Gay Act” e dove si è provato a fare lo stesso a proposito delle tematiche razziali con un altro provvedimento simile.
Ora, è evidente che il fatto appena descritto è uno dei tanti esempi di censura di stampo politico reazionario che negli stati meno progressisti degli USA sono all’ordine del giorno letteralmente da secoli, con la Florida a candidarsi alla maglia nera negli ultimi anni (ma con una storia già ricca in quel triste ambito, basti pensare ad Anita Bryant).
John Leguizamo e Ronnie Chieng per The Daily Show, ad esempio, hanno usato il registro della satira per spiegare molto bene cosa sia successo. Il loro sketch ha come chiari bersagli i bigotti e tutto un tipo di pensiero puritano estremo tipicamente USA.
Breve preambolo: la Cultura Woke è un fenomeno nato nelle comunità afroamericane in merito alla critica delle diseguaglianze. Il termine Woke sta a indicare un Black slang per “attento ai pregiudizi razziali e, più in generale, alla discriminazione”. Fenomeno legato a doppio filo a quello del cosiddetto politically correct, ovvero un insieme di valori e di linguaggi che, nati a metà anni ‘70 negli ambienti progressisti statunitensi, davano particolare rilevanza ai temi dell’inclusività sociale e del rispetto per le minoranze.
Dai primi anni ‘90, il termine politically correct è diventato di largo uso tra i conservatori in accezione dispregiativa verso i discorsi progressisti. Dal 2015 circa, inoltre, i due termini sono diventati quasi sinonimi nel dibattito pubblico, con Woke che ha cannibalizzato entrambi i significati soprattutto – naturalmente – nei discorsi conservatori. E almeno dal 2021 in poi l’agenda conservatrice USA è diventata spiccatamente incentrata sul combattere il Wokeism in tutti i modi possibili.
Quello che è successo in Florida è il frutto di una politica culturale (ma non solo) conservatrice, profondamente anti-progressista e anti-woke. È talmente lampante che non dovrebbe essere neanche necessario spiegarlo. Il San Francisco Chronicle qualche giorno fa ne ha fatto una analisi piuttosto approfondita qui. Parliamo di cara vecchia censura old school. Autoritaria, religiosa e tradizionalista. Limpida.
Cosa è successo invece in Italia? Si è parlato di cancel culture.

Cosa sarebbe la cancel culture? Sarebbe quel fenomeno, nato a cavallo del 2020 e diventato poi mainstream con l’abbattimento di varie statue di schiavisti ad opera del movimento Black Lives Matter a seguito dell’omicidio dell’afroamericano George Floyd, in cui la folla – fisicamente, ma più spesso sui social – chiede/ottiene la rimozione dalla scena pubblica di personaggi sgraditi. Strettamente associata a istanze progressiste/woke (la folla social in queste narrazioni viene spesso chiamata woke mob) e generalmente indirizzata contro personaggi in frame reazionario o conservatore.

Quindi qui abbiamo un evento, quello di Tallahassee, chiaramente nato da una prassi anti-progressista, che è arrivato da noi raccontato come frutto di una agenda woke progressista. Una colossale inversione della realtà che, finché arriva da complottisti, sovranisti, fenomeni da baraccone come Fusaro o generalmente gente di estrema destra, risulta nella norma. D’altra parte questi sono gli stessi che, quando si parla di flussi migratori, chiamano invasione l’arrivo di poveracci che scappano dalla povertà.
Il problema è quando a questa narrazione rovesciata aderiscono personaggi che dovrebbero essere faro dei progressisti nostrani (inserire ironia qui).

Qui abbiamo Giuseppe Conte, che non è proprio il più sveglio del mazzo e lo ha dimostrato in diverse occasioni, specie da quando ha perso il vecchio staff. Ed è anche vero che da un devoto di Padre Pio non ci si aspetta il saper riconoscere il fondamentalismo religioso anche quando glielo sbattono in faccia. Ma qui inanella una serie di fesserie anche più densa rispetto alla sua media. Prima cita il caso della Howard University, una bufala del 2021 che si può ampiamente smentire con due minuti di ricerca su Google. Poi associa a posizioni progressiste un evento che è nato palesemente in un contesto conservatore (cosa che, se avete letto fin qui, ormai avrete piuttosto chiara). Infine parla di oblio per scrittori e personaggi storici ritenuti offensivi rispetto agli standard odierni.
Ovviamente non dice chi, perché se andiamo a vedere chi sono gli autori più cancellati, cioè quelli i cui testi sono oggettivamente più difficili da reperire nelle scuole, biblioteche e librerie Americane negli ultimi anni, scopriamo che la cosa sta esattamente all’opposto di come la racconta lui. La maggior parte dei libri bannati negli USA, secondo l’American Library Association, sono testi che trattano identità di genere e queerness (fonti qui e qui con qualcosa in italiano qui).
È anche probabile che Conte in questo caso voglia riagganciarsi alle recenti polemiche sulle riedizioni “edulcorate” dei libri di Roald Dahl o Agatha Christie, che però non c’entrano granché con il fenomeno, dato che si tratta di decisioni commerciali degli editori, non della woke mob che ne chiede la cancellazione (lo ha spiegato bene Rivista Studio qui) e che questo tipo di operazioni hanno una storia di decenni. Il caso di Tintin in Congo è emblematico, e se ne parlava già nel 2012 mentre, per tornare alla Christie, Dieci piccoli indiani era originariamente (1939) titolato Ten Little Nig**rs. Il titolo venne cambiato appena un anno dopo e dagli anni ’80 in poi, nuovamente, venne adattato in quello canonico And then there were none per eliminare ogni riferimento etnico. Strano che un sedicente fenomeno nato nel 2020 possa aver avuto a che fare con pratiche editoriali vecchie più di mezzo secolo, vero?
Ah, e su Amazon si trova ancora, tranquillamente acquistabile, il Mein Kampf.
Ma l’equivoco, se così vogliamo chiamarlo, qui in Italia è anche più vecchio rispetto agli sproloqui di Conte. Ricordiamo cosa scrisse quell’altro fulmine di guerra di Matteo Renzi sull’aggressione a Salman Rushdie a ottobre del 2022.

Rushdie sul quale, val la pena ricordarlo, pesa dal 1989 una fatwa emanata dall’ayatollah Khomeini a causa del suo libro I versi satanici.
Un po’ difficile, per chiunque con una alfabetizzazione di base, associare una fatwa a qualche tipo di forma mentis progressista woke o politicamente corretta. A meno di essere molto confusi o molto in malafede. Ultima ipotesi questa, nel caso di Matteo nostro, che potrebbe corrispondere al non potersi permettere di denunciare il fondamentalismo religioso quando si prendono soldi per consulenze fornite a una teocrazia fondamentalista, che tra l’altro potrebbe anche avere avuto un ruolo nell’attentato allo scrittore (sulla citazione di J.K. Rowling, altro cavallo di battaglia di queste retoriche, torneremo in altra sede).
Confusione, crassa ignoranza o malafede quindi in questo caso paiono sovrapporsi senza soluzione di continuità. Ma il fatto che da noi la notizia di Thalassee sia stata rilanciata con il contesto corretto e dovizia di dettagli praticamente solo sul Corriere e si trovi indicizzata principalmente su Dagospia, che la riporta, dovrebbe farci riflettere un bel po’ sul livello di serietà e/o competenza con cui vengono trattati certi temi.
Ma il trattamento che la stampa fa dell’argomento cancel culture è da sempre parecchio problematico. Andando anche oltre gli imbarazzanti clickbait sui casi Dahl e Christie abbiamo come ultimo esempio un’intervista alla Jennifer Aniston di Friends, circolata in questi giorni, che lamenta la difficoltà di fare commedia oggi (su cui la migliore risposta l’ha già data, preventivamente e in tempi non sospetti Anthony Jeselnik) parlando delle nuove generazioni che trovano offensiva la sua vecchia serie.

Il problema è che Friends è una serie discussa da ormai quasi 20 anni per la sua intrinseca rappresentazione gentrificata, così come per il suo umorismo parzialmente obsoleto (parzialmente però, perché i meme su Ross la fanno ancora da padrone nell’Internet di oggi). Ma di cancellazione nel caso di Friends non si è mai parlato.
Al massimo i Gen Z su TikTok usano la storica serie per prendere per il culo millennial e genxer (questi ultimi sarebbero i nati tra il 1965 e il 1980, diciamo dei quasi boomer) a causa di un umorismo che, dal loro punto di vista, semplicemente non funziona. Come fanno i giovani coi vecchi da quando esiste il mondo, come facevamo noi ora quarantenni quando vedevamo John Wayne truccato da Gengis Khan e già pensavamo fosse una baracconata.
Tutto questo mentre nell’intervista alla Aniston sfugge un dettaglio, e quoto dalle parole dell’attrice: “Si poteva scherzare su di un bigotto e farsi una risata. Era una cosa esilarante. E si trattava di educare le persone su quanto [questi individui] fossero ridicoli, mentre ora non ci è permesso farlo”.
I bigotti sarebbero quindi dei woke? Non penso proprio, bellezze. Il termine bigot ha un significato specifico in lingua inglese, specie in bocca a un genxer come la intervistata, e fa riferimento all’intransigenza religiosa e conservatrice. La Aniston sta quindi più probabilmente denunciando un clima di censura politica old school (come nel caso di Tallahassee) che parlando di cancel culture. Ma la cosa sembra sfuggire a molti, specie ai titolisti[1], specie alle testate di orientamento liberal-conservatore.
E – esclusi i casi delle riviste online che monetizzano sui banner pubblicitari e quindi devono agganciarsi ai trend utilizzando mezzucci come i titoli acchiappaclick per raccogliere pubblico – a questo punto viene lecito chiedersi se questa narrazione forzosa riguardo un fenomeno che non sembra avere rappresnetazioni concrete non faccia parte di una più o meno precisa strategia politica, cioè la connotazione peggiorativa di tutti i discorsi progressisti (diritti, autodeterminazione, gender gap, questioni razziali ecc).
Dove alcuni giornali , abdicato perlopiù al ruolo di informazione per passare a quello di propagandisti degli interessi politici ed economici dei propri editori[2], finiscono per trasformare i loro pochi, ma spesso sufficienti, lettori in camere dell’eco per specifiche operazioni di panico morale atte a promuovere narrative strumentali agli interessi dell’attuale cultura egemonica.
E quella italiana, guarda caso, non è più progressista da un pezzo. Se mai lo è stata.
Note
[1] A latere, le risposte social alle dichiarazioni della Aniston sono state perlopiù ironiche. In esse, si fa notare che ci sono show come It’s Always sunny in Philadelphia o South Park che sono terribilmente scorretti in tutto senza che nessuno li abbia mai criticati. Questo perché sono in effetti ancora divertenti anche a 15 anni dalla loro prima messa in onda.
[2] Il caso recente di Renzi che diventa direttore del Il Riformista ci sta urlando in faccia chiaramente come questa tendenza sia molto più che un’ipotesi peregrina.

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