Vivere senza padre: genitori e figli nelle carceri italiane

Vivere senza padre. Si può ed è piuttosto comune. A volte si riesce in qualche modo a farcela, come è stato per me, ma è una fatica immensa. La mancanza del padre è una lacerazione di destino, che ti accompagna per sempre e non ti lascia mai, per tutta la vita. Probabilmente hai Saturno mal posizionato nel tema natale.

Da bambina sai che tuo padre non c’è e che questo rende tutto diverso. Non è scontato che avrai i soldi per vivere decentemente e che tu riesca a sopravvivere, soprattutto se non hai nessun altro: una famiglia composta da te e da una madre distratta, persa nei suoi fallimenti. Così, può capitare che alle feste tu preferisca nasconderti dietro ai divani, o in bagno, perché hai timore degli altri bambini battaglieri e urlanti, con padri visibili e molto presenti, mentre tu non hai nessuno che ti protegga, nessuno che torna a casa dopo il lavoro, nessuno che ti difenda quando i più grandi ti menano. E allora è meglio nascondersi, non farsi vedere. E’ più comodo farsi dimenticare.

Si può vivere senza padre perché lui è su una nave, perché è morto quando eri piccola, perché non ha resistito. Oppure perché è internato. In ospedale, in carcere, in un centro per malati mentali o per tossicodipendenti.

Dati ufficiali relativi ai genitori detenuti a vario titolo nelle carcere italiane nel 2013. Photo credit: Redattore Sociale.

Ancor peggio: si può vivere senza padre non perché è andato via lui, ma perché il problema sei tu; sei costretto in un letto di ospedale, o chiuso in carcere da ragazzino. È possibile. E oggi è ancor più possibile dopo il cosiddetto decreto Caivano: il decreto legge 15 settembre 2023 n. 123, convertito in legge 13 novembre 2023, n.159.

Questo decreto è nato sull’onda mediatica di un episodio mostruoso: due cuginette di dieci e di dodici anni a lungo stuprate e sottoposte a turpitudini continuate ad opera di un branco di criminali minorenni. Abusate per mesi e picchiate con sassi e bastoni; filmate durante la consumazione dell’orrore, tra le risa dei giovani aguzzini e le loro urla terrorizzate. Le due bimbe, ridotte a uno stato di assoluta sudditanza fisica e psicologica – prive di aiuti nelle famiglie e nel contesto sociale di appartenenza – sono state torturate per mesi in un vecchio stabile abbandonato di Parco Verde, a Caivano, nel “deep hinterland” (la “provincia profonda”, che dà il titolo anche a questo megazine) a nord di Napoli.

Dallo sgomento e dall’indignazione suscitati da questa abominevole vicenda, caratterizzata da una crudeltà folle verso creature inermi, è nata la naturale reazione della società civile. Da qui la genesi del decreto Caivano. E come capita per tutti i provvedimenti direttamente originati dal solco di dolorose vicende di cronaca, i relativi effetti sono stati incontrollati.

Scorcio del rione Parco Verde a Caivano, provincia di Napoli. Photo Credit: Corriere del Mezzogiorno.

Volto a reprimere i violenti fenomeni delle baby gang e l’abbandono scolastico, il decreto vanta alcune novità legislative:

  • Il cosiddetto Daspo urbano, che vieta l’accesso dei minori di almeno quattordici anni ad alcune aree delle città. La notifica del divieto viene fatta ai genitori e trasmessa al Procuratore presso il Tribunale per i minorenni del luogo di residenza del minore;
  • Il divieto di utilizzare piattaforme o servizi informatici e telematici, nonché di possedere telefoni cellulari o altri dispositivi di comunicazione per i minorenni o maggiorenni condannati (anche in via non definitiva) per determinati reati;
  • La responsabilità penale e amministrative dei familiari per le assenze scolastiche ingiustificate;
  • L’inasprimento delle pene per porto abusivo di armi e strumenti atti ad offendere e la modifica delle pene edittali per i delitti di spaccio di stupefacenti.

Il decreto ha poi operato un massiccio intervento sul processo penale a carico di imputati minorenni:

  • L’ampiamento dei presupposti di applicazione della misura precautelare dell’accompagnamento a seguito di flagranza;
  • L’abbassamento dei limiti per l’applicazione della custodia cautelare in carcere delle altre misure cautelari personali, ora più facili da eseguire.
Detenuti in cella presso il carcere minorile Ferrante Aporti di Torino. Photo credit: La Stampa.

È di pochi giorni fa la notizia che la Commissione Europea ha rivolto all’Italia un duro monito in quanto il nostro Paese non ha pienamente recepito la direttiva 2016/800 sulle garanzie procedurali dei minori assoggettati a processi penali. Il decreto Caivano non ha certo aiutato.

Quanto alle misure sostanziali e agli inasprimenti delle pene, seppur emanate sull’onda emotiva dei gravissimi fatti occorsi a Caivano, le stesse hanno subito portato a un aumento smisurato degli ingressi negli Istituti Penali Minorili (IPM) di giovanissimi detenuti, dei quali più della metà risultano essere di nazionalità straniera. E si noti che la maggior parte dei nuovi ingressi avviene in fase cautelare.

Quanto all’uscita dagli IPM, se è vero che la maggior parte dei ragazzi riesce a non scontare completamente la pena, accedendo a percorsi di recupero e rieducazione all’esterno, è pur vero che troppo spesso l’uscita coincide con un trasferimento da istituti minorili a carceri per adulti. Qui, evidentemente, non sussistono le stesse risorse e le possibilità di reinserimento presenti nel sistema della giustizia minorile.

Analisi statistica delle tipologie di reati per i quali dei minori si trovavano reclusi nelle carceri italiane nel 2017. Come si evince, i reati che hanno a che fare con atti di violenza sono una netta minoranza. Photo credit: Redattore Sociale.

E allora c’è da chiedersi che speranze di vita può avere un ragazzo internato da minore e poi trasferito in un carcere di adulti. I suicidi di giovani detenuti sono in forte aumento. Uno per tutti e neppure l’ultimo: il trapper Jordan Tinti (in arte “Jordan Jeffrey Baby”), suicidatosi nel carcere di Pavia pochi giorni fa. Nel leggere la notizia viene naturale interrogarsi sulla storia criminale di questo ragazzo, probabilmente internato molto giovane.

Le carceri traboccano di gioventù: l’età media, almeno in alcune strutture, è decisamente bassa. Se dovessimo pensare che questi giovani sono destinati a togliersi la vita, non potremmo rimanere indifferenti; sarebbe un fallimento per il sistema, oltre che per le loro famiglie e per loro stessi.

E di pari passo aumentano i suicidi delle guardie penitenziarie, che soffrono enormemente il sovraffollamento e le condizioni difficili nella struttura ove lavorano, ove mangiano e, a turno, ove passano la notte. Anche loro patiscono il disagio, talvolta sino allo sfinimento. Quando muore una guardia, specie se amata dalla popolazione carceraria, tutti si sentono menomati e più soli.

Molti detenuti hanno un rapporto controverso con il padre, quasi mai presente ai colloqui. Fuori degli enormi cancelloni in ferro si vedono pochi uomini. E comune, piuttosto, imbattersi in drappelli di donne scarmigliate (o super-sexy, a seconda del genere) con bambini al seguito e i soliti due o tre borsoni della spesa, contenenti i generi di prima necessità.

E oltre ai figli detenuti ci sono i padri detenuti. I padri che scrivono poesie per i figli fuori; i padri che dicono che i figli, anche se cresciuti da altri padri, sono il loro respiro, l’unica cosa che li fa andare avanti; i padri che si commuovono e cantano, emozionati, la loro canzone preferita, uscita il giorno in cui è nata la prima figlia, scritta per lei, proprio per lei: “È per te il profumo delle stelle; è per te il miele e la farina; è per te il sabato nel centro; le otto di mattina; è per te la voce dei cantanti, la penna dei poeti è per te una maglietta a righe; è per te la chiave dei segreti…”.

Visite familiari in occasione della Festa del Papà presso il carcere di Busto Arsizio, in provincia di Varese.

Una volta mi è capitato di essere presente all’uscita dalla sala colloqui della compagna di un detenuto con il piccolo figlioletto. Il bambino si rifiutava di lasciare il padre e restava attaccato a lui, rendendo del tutto vani gli sforzi della mamma. Il figlioletto rimaneva agganciato al collo del padre, come un piccolo koala cocciuto, mentre entrambi i genitori cercavano di farlo ragionare. Infine il distacco forzoso tra le urla del bambino, la porta che si chiude e il piccolo incollato all’uscio come un mitile, le braccia aperte attaccate al ferro, in un pianto disperato e lancinante.

Non oso immaginare il senso di colpa che quel padre avrà vissuto dall’altra parte del muro, all’odio verso sé stesso che avrà provato, di fronte a tanto strazio. Guardavo il cielo mentre mi allontanavo da quelle urla di bambino, per trovare conforto in una giornata di sole.

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