Era il 2008. Al cinema dominava il “nuovo” genere dei cinecomic, tra esperimenti d’autore come lo Spiderman di Raimi o il Batman di Nolan, e opere di scarso interesse. Molte di queste erano prodotte da studi che avevano acquisito, anni prima, i diritti da una Marvel a rischio bancarotta. Ma proprio in quell’anno arrivò Iron Man. Era la prima opera prodotta dai (nuovi) studi interni alla Marvel, che scommise su un eroe ancora poco conosciuto – soprattutto tra un pubblico non avvezzo ai fumetti.
Il film è un inaspettato successo. Ma è con il suo secondo film che la Marvel Studios stupisce: al termine del reboot dell’Incredibile Hulk fa di nuovo la sua comparsa Robert Downey Jr., ancora una volta nei panni di Iron Man. Viene lasciato così suppore allo spettatore un piano editoriale a lungo respiro, ovvero l’intenzione di creare un universo condiviso, come esisteva già da tempo nei fumetti.
Da lì a poco avviene l’acquisizione della Marvel da parte della Disney. Vale a dire da parte di coloro che, forse meglio di tutti, potevano sostenere e spingere un progetto simile. Cosi, dopo diversi film e l’introduzione di svariati iconici supereroi, nel 2012 arriva il primo crossover supereroistico cinematografico. Viene affermato quindi un nuovo modo di intendere il cinema di intrattenimento: seriale, transmediale, vicino alla tv ed allo stesso fumetto, e (come tutte le grandi narrazioni popolari) molto interessato a fidelizzare il proprio pubblico.
Avengers diventa uno dei più grandi successi della storia del cinema, così la Marvel/Disney continua a produrre film appartenenti ad uno stesso universo, figli di un grande processo editoriale, ottenendo record di incassi, successi di critica e pubblico. Tenta anche una condivisione transmediale, con una costola televisiva, che purtroppo percorre un discorso parallelo e, poco o mai, interagisce con il cinema.
Dopo il suo crossover più ambizioso (Endgame, atteso dai fan come un vero e proprio evento) e dopo essersi ormai affermata come nuovo modello dell’intrattenimento cinematografico, la Marvel decide di rendere il suo universo ancora più fitto e, davvero, transmediale annunciando delle serie tv direttamente collegate ai film, da caricare in una neo-piattaforma streaming a pagamento, Disney Plus.
Paradossalmente, l’inizio di questo nuovo corso coincide con l’arrivo della pandemia mondiale, che costringe a posticipare tutto il blocco cinematografico e suggerisce alle major di spostare le loro attenzioni proprio sulle serie tv, rendendo il 2020 il primo anno dal 2008 senza appuntamenti Marvel. La prima serie a sbarcare nella piattaforma è stata Wandavision, che si concentra su di una coppia di personaggi (Wanda e Visione) ancora mai realmente approfonditi al cinema.
Con Wandavision appare chiaro, sin da subito, come i tempi ed i ritmi televisivi, tra cliffhanger e le attese settimanale, siano la forma più adatta alla struttura Marvel, che così ha tutto il tempo per sviluppare i suoi personaggi e i suoi discorsi. La Marvel però porta l’asticella dell’ambizione ancora più in alto, tentando per la prima volta l’ibridazione di genere, sperimentando con la sit com.
La Marvel non agisce solo sul piano prettamente stilistico, ma anche su quello “storiografico.” Ogni puntata della serie riprende formalmente un’epoca televisiva dagli anni 60 ad oggi, con i suoi tratti distintivi, i suoi abbigliamenti, costumi e contenuti. Un mondo cangiante, quello di Wandavision, che cambia in base ai bisogni e i desideri della neo strega Wanda, che ispirandosi alle sit com della sua infanzia crea un suo mondo ideale.
Ed è proprio qui che la prima serie della Marvel, oltre ad essere un terreno di sperimentazione stilistica, diviene quasi un manifesto di tutto l’MCU, se non del senso stesso delle narrazioni seriali. Wandavision teorizza il ruolo e l’importanza, per l’uomo contemporaneo, della fidelizzazione nel racconto seriale, narrazioni fiume che accompagnano il crescere di un individuo, che forgiano immaginari e creano un senso di comunità. La fidelizzazione, concetto alla base dell’intero progetto Marvel, diviene quindi il tema portante della sua prima serie tv e, forse, di quello che rimane fino ad ora il suo progetto più ambizioso.
Davide Truchlec
Frequento l’ultimo anno di DAMS a Palermo, dopo aver concluso un percorso all’accademia di cinema Griffith, a Roma.
Studio da tempo la cultura pop e le sue, svariate, manifestazioni. Su di queste ho organizzato pure 3 seminari all’Università di Palermo.
La mia rubrica approfondirà le dinamiche e i linguaggi dell’arte popolare, con particolare attenzione a come, oggi, questi vengano percepiti dai nuovi media e le nuove generazioni.