Conosco da molto tempo il Professor Stefano Montes, antropologo socio-culturale presso l’Università di Palermo. Con lui ho avuto lunghe chiacchierate e scambi culturali. Abbiamo addirittura gestito insieme alcuni seminari universitari. Nonostante questi trascorsi, non vedevo il Professore da quasi due anni causa pandemia globale. L’ho però rivisto proprio in questi giorni per porgli alcuni miei quesiti sul ruolo del web nel mondo odierno, sull’importanza degli immaginari e sul futuro delle narrazioni popolari, il tutto, per l’appunto, in un mondo post-pandemico.
Mi piacebbe partire dal tuo rapporto con il web. Ho notato che ti relazioni con il tuo profilo Facebook come se fosse un vero e proprio diario. Condividi raramente link esterni e costruisci la tua vetrina attraverso foto quotidiane, accompagnate da riflessioni personali. Mi ha sempre colpito questo tuo modo di utilizzare il mezzo social e mi piacerebbe capire cosa rappresenta per te Facebook, oggi.
Inizialmente ero reticente all’utilizzo di Facebook, per quanto tanti colleghi antropologi mi spingevano ad iscrivermi. Sono molto restio alle costrizioni e dall’esterno vedevo i social come un possibile limite. Un giorno però mio figlio, stufo di questa mia reticenza, mi ha creato un profilo e spinto ad utilizzarlo. Così come prima cosa l’ho utilizzato per condividere la registrazione di un convegno.
Dopo aver preso dimestichezza con il mezzo, mi colpì, da antropologo, l’immediatezza con cui i social ti permettevano di creare interazioni. Cosi cominciai a trascrivere i miei pensieri quotidiani, anche per stimolare l’interazione tra i miei contatti. Iniziai a viverlo proprio come diario interattivo. Non dimentichiamoci che il diario è sempre stato lo strumento fondamentale di lavoro dell’antropologo, come ci ricorda il famigerato diario di Malinowski.
Nei miei trascorsi in viaggio per mondo riempivo pagine e pagine di diari fisici. Ora non uso più il foglio cartaceo perché tutte le mie riflessioni le riverso direttamente su Facebook. A differenza del cartaceo, Facebook mi costringe costantemente a fare una selezione delle mie riflessioni. Se prima i miei pensieri divenivano pubblici solo in funzione di un articolo, adesso sono portato a fare una scrematura già dalla stesura di un post.
I social hanno sicuramente qualcosa in comune con l’antropologia: costituiscono entrambi uno sguardo verso l’altro. Non pensi che i social siano fondamentali per comprendere il contemporaneo, quantomeno da un punto di vista antropologico?
Sì, lo penso anch’io. Non credo che oggi potrei più vivere senza Facebook, proprio per la sua centralità nelle narrazioni contemporanee. Facebook è oggi diventato l’incontro di vita e narrazione, una vera e propria traccia del vissuto.
Ti racconto un episodio. Giorni fa ho messo una foto che ritraeva una lunga strada, sotto scrissi che era la strada che avrei dovuto percorrere per comprare il pane. Immediatamente, i miei contatti mi hanno risposto, ponendomi perplessità e quesiti su ciò che dovevo compiere. Queste interazioni mi hanno fatto percepire quanto Facebook sia contenitori di attimi e culture del quotidiano. Per quanto inserite in una cornice virtuale, queste interazioni hanno una grande valenza di verità. Per questo Facebook è un testo sfaccettato, da analizzare. Infatti tanti miei saggi scientifici sono approfondimenti di riflessioni che avevo precedentemente postato su Facebook.
Cosa ne pensi del restante mondo dei social? Non credi che sarebbe interessante analizzare antropologicamente il filtro distorto di Tik Tok? Un contenitore di grottesco, ilarità e dissacrazione. Almeno secondo me, Tik Tok potrebbe addirittura essere il social più vicino alla contemporaneità.
Non nego la curiosità che mi creano questi social più recenti, che anzi temo possano fagocitarmi, vista la loro profondità e le loro molteplici sfaccettature. Però sono d’accordo con te: bisogna valorizzare quegli spazi leggeri e ilari, dediti al divertimento. Un noto antropologo americano sostiene che l’antropologia ha sempre bisogno di uno studio dell’improvvisazione e del divertimento, perché è parte rilevante dell’essere umano.
L’attuale cultura occidentale vive e si nutre, costantemente, di divertimento. In tal senso, non pensi che una delle grandi problematiche causate del Covid sia stata la sospensione della mondanità, del divertimento e del senso di comunità che ne deriva? In fondo anche la Scuola ha perso un po’ la sua valenza comunitaria.
Il Covid ha annullato l’essere sociale dell’uomo. La privazione del contatto e dell’interazione ha portato a riconsiderarci e riflettere su noi stessi. Io stesso l’ho percepito durante le lezioni universitarie. Invece di vedere volti con delle espressioni e delle reazioni davanti a me, spesso c’era solo la mia foto profilo.
Però c’è da dire che durante questi due anni di clausura quel bisogno di evasione e svago è stato ricreato e alimentato dalla virtualità, dai canali streaming, dai social, dai videogiochi. Ovvero, da tutto ciò che poteva portarti in un mondo altro. Che importanza dai tu, oggi, soprattutto durante questi anni della pandemia, ai prodotti popolari, al virtuale e a tutti quei strumenti che hanno la capacità di allontanarci dal reale e creare nuovi spunti per il nostro immaginario?
Anche io ho poggiato il mio sguardo altrove durante la pandemia. Infatti, ho recuperato tanto cinema del passato. Il Covid ha spostato il nostro essere sociale in una dimensione altra, direi virtuale. Chi con videogiochi, chi con i social o chi, come me, con il cinema. Il Covid però ha anche ricontestualizzato il concetto di Casa, ovvero cosa vuol dire vivere in uno spazio chiuso. L’essere sociale quindi si ri-contestualizzava proprio in virtù di queste condizioni, si ripensava. Un grande momento di socialità per me era proprio lo scambio a distanza di opinioni su film o esperienze vissute in casa, a volte anche da solo.
Questo mi ricorda, ad esempio, l’attesa che si era creata sui social dell’Italia sotto lockdown per l’ennesima riproposizione, su Italia 1, della saga di Harry Potter. Spostare lo sguardo da morti ed incertezze era più facile, se questo spazio veniva canalizzato da mondi immaginari, altri.
E’ una questione di evasione. Tu con il termine “evasione” pensi al viaggio, allo spostamento. E durante il lockdown le narrazioni virtuali ed immaginarie sono state l’unico veicolo di viaggio. L’immaginario non è liberamente creato, è sempre figlio di orizzonti culturali. E quindi l’immaginario è cambiato nella post-pandemia, per forza di cose.
In fondo tutti i momenti storici, immediatamente evidenti, portano ad un ripensamento del vivere.
Credo che la pandemia abbia avuto un impatto maggiore sull’immaginario rispetto a molte guerre passate. Con la guerra esistono sempre delle posizioni molto più privilegiate di altre, mentre con il Covid tutti eravamo vulnerabili. Non dico tutti allo stesso modo. Però tutti vivevamo la stessa incertezza.
Per quanto riguarda il futuro, invece, sarei curioso di sapere come le narrazioni e l’arte elaboreranno questo disastro mondiale. Come fu per l’11 settembre, sicuramente avvertiremo un cambiamento. Secondo te, se mai ci sarà, come sarà questo Neorealismo Post-Pandemico?
Ovviamente è ancora presto per dirlo. Durante la pandemia, ho chiesto ai miei studenti di raccontarmi le loro esperienze quotidiane. Quello che mi ha colpito nelle loro risposte è stato che i loro racconti si soffermavano sul dettaglio. Erano narrazioni al microscopio ed allo specchio. Il monologo interiore, la confessione, in qualche modo potrebbe essere una conseguenza semiotica del trauma del Covid, un modo di elaborare il trauma.
Forse, per ricollegarci all’inizio della nostra conversazione, una chiave di lettura per comprendere come saranno le narrazioni future potrebbe essere proprio quella del diario, una narrazione del sé e la sua funziona catartica. E poi potrebbe anche avvenire una ricontestualizzazione degli spazi. Forse la casa non sarà più vista come spazio di rilassamento e scioglimento, ma come scenario principale delle vicende, dell’agire dei suoi personaggi.
Frequento l’ultimo anno di DAMS a Palermo, dopo aver concluso un percorso all’accademia di cinema Griffith, a Roma.
Studio da tempo la cultura pop e le sue, svariate, manifestazioni. Su di queste ho organizzato pure 3 seminari all’Università di Palermo.
La mia rubrica approfondirà le dinamiche e i linguaggi dell’arte popolare, con particolare attenzione a come, oggi, questi vengano percepiti dai nuovi media e le nuove generazioni.