Alle radici del privilegio: il Malawi e la memoria del colono

Il Malawi si increspa sulla linea di frattura del continente africano, giunta, quaggiù, quasi al suo naturale esaurimento. In un ultimo gettito di sangue essa schizza il lago omonimo, fu Nyassa, su una cicatrice rocciosa impervia e disarticolata dove montagne si sollevano solitarie e perlopiù giovani, evidentemente e stranamente appuntite. Le foreste di alta quota cedono il passo alle savane del Sud, quelle dove il sole sa di deserti e oceani, il termine di una massa di terra addolorata e stanca che qui, finalmente, pare trovare requie. Requie sbadate, forse, fatte di celebrazioni indebite – ma chi siamo per dirlo? Non so.

“Blantyre”, la città dell’esploratore, si solleva a mille metri dal mare come memoriale improbabile a un’epoca forse non tanto trapassata. Blantyre, Malawi, come Blantyre, in Scozia (terra di David Livingstone); un cordone che lega la colonia alla madrepatria nella figura di chi più di tanti altri rappresentò l’immaginario del “fardello”, monumento umano alla superiorità per nascita forse proprio perché nato in miseria. Questa ferita della terra rigoglia di tributi al bianco, al suo credo. “Cristianesimo, Commercio, Civilizzazione”.

Veduta della downtown di Blantyre, Malawi.

Alla porta dell’hotel mi accoglie *****, il proprietario dello stabilimento (personaggio vagamente in vista, non facciamo nomi). Inglese, chiaramente, circondato da locali sorridenti che seguono docili le sue indicazioni. Il posto abbonda di vini francesi, italiani, il menù sa di Parigi, con tocchi di Grecia e Inghilterra qua e là. Le mura che lo separano dal resto del mondo sono solide, rassicuranti, di là la vegetazione è scomposta, ma dentro – dentro, la piscina è mollemente accarezzata dalle palme. Un bellissimo posto, sia chiaro. Gli chiedo da quanto tempo abiti qui; quarant’anni, mi dice. Quarant’anni di ricchezza, da straniero, in un paese di diseredati. Mi interrogo su che tipo di conseguenze psicologiche questo debba avere su chi lo vive dall’interno. Quaranta, lunghi, anni, di privilegio nelle lande dei discriminati. E mi ritorna in mente Livingstone.

Mi ritorna in mente Livingstone, le sue ulcere sui piedi prima di morire, la pancia gonfia, la consapevolezza dell’imminenza grama, e mi chiedo in che modo la mente di ***** e quella dell’esploratore possano, forse, essere simili. Credo che sia una qualità peculiare del colonialismo britannico, fare riflettere su queste scemenze; ancora una volta non so. Ma mi viene da pensare che forse, al centro del continente, lontano da quella Civilizzazione che voleva portare, ardente, in giro per i popoli senza dio; nella periferia del suo orizzonte di moralità, ma capitale del suo travaglio non richiesto; morendo, Livingstone, forse, forse, si sarà sentito anche lui come il mio padrone di casa. Siamo portati a pensare che il privilegio sia solo questione di mezzi, e di certo lo è. Ma ci dimentichiamo che il privilegio è anche lo stato cognitivo di sentirsi al centro del proprio universo di significato, legato a quello, oggettivo, di non avere chi, con la forza, ti impedisce di sentirtici.

L’esploratore e missionario britannico David Livingstone (1813-1873), qui intento ad esercitare le sue funzioni (ed i suoi privilegi) coloniali.

Lavorare quaggiù è sempre una scommessa morale. Scommetti che quello che stai facendo sia, in ultima istanza, legittimo. Ti rassicuri, diventi esabondantemente cordiale con chi trovi qui, forse perché da qualche parte una voce ti chiede di espiare la tua colpa primigenia: quella di averci messo piede. E si fa presto a dire che non c’è nulla de espiare, che il passato è passato, che bisogna essere consapevoli, vigili, senza per questo richiudersi in Europa. Mantenere i contatti, non buttare il bimbo con l’acqua zozza, tutte queste belle cose. “Ma poi guarda che loro sono contenti se vieni a lavorare qua, eh”. “Loro”. Mi immagino sempre questa sorta di postmoderno Edmond Edmont che vada di villaggio in villaggio, a chiedere “loro” se “a loro” stia bene che venga a trovarli l’uomo bianco, nel 2022. Eppoi mi immagino “loro”, entusiasti di questo avvento. “E perché non dovrebbero essere felici?”, aggiungi. Chiaro.

“Pensa a Livingstone”, dici. “Morto, il suo cadavere è stato trascinato per 1600 km attraverso l’Africa intera, decine di suoi… collaboratori, si sono sentiti tanto in debito verso di lui da omaggiarlo con così tanta dedizione. Vedi? Qualcosa di buono deve avere fatto, o vorrai avere la pretesa di sapere meglio di loro (loro) cosa va bene e cosa no?”. Eppoi immagino quali sarebbero i termini del dibattito in casa nostra, nella capitale del mondo giusto e buono, se da un momento all’altro “loro” decidessero che no, il brav’uomo non ha fatto nulla di morale, cambiamo nome alle città, abbattiamo le statue, distruggiamo tutto. Mi immagino quali discorsi si farebbero se tutto non andasse esattamente come diciamo sia ragionevole che vada.

Baraccopoli nella periferia di Blantyre, Malawi.

“Chiacchiere senza senso, non sono costruttive, non è quello di cui l’Africa ha bisogno”. Ricordo la frase del professore, congolese, a Kinshasa, quando gli chiesi, tanto stupidamente, cosa pensasse del Belgio. Mi rispose, “l’Università Libera di Bruxelles ci ha dato una generazione di intellettuali”; e mi domandai cosa ne avrebbe pensato il Dr. Copeland di Carson McCullers. Mi domando, ora, quanta energia mentale e morale richieda mandare tutto al diavolo, condannare senza rimpianti; mi domando quanto anche poter condannare tutto, le nazioni, il passato, sia, in fondo, un gran bel privilegio.

“Eh vabbè, ma allora non si può dire più niente”. Ascolto il TG, in inglese, con la diretta parlamentare, in inglese pure quella (2022).

Talk show su di un canale televisivo del Malawi (in lingua inglese)

Non credo che non si possa più dire niente. Credo si possa dire molto più oggi che ieri. Ma se fosse vero, mi dico, davanti ai cartelli stradali per Livingstonia; se fosse vero, dicevo, allora forse faremmo bene a tacere (ogni tanto, sai, nel dubbio). Taci, guarda la Croce del Sud, tanto brillante, che pure nel cielo, a furia di parlare, abbiamo piantato le nostre insegne.

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