Arcadia, la guerra e la peste: serialità horror al confine fra rete e realtà

Sette mesi or sono, una nuova serie analog horror comparve su YouTube passando relativamente inosservata, fino a quando l’algoritmo della piattaforma non cominciò a renderla visibile tra aprile e ora. Si tratta di “Arcadia”, la prima produzione in stile simil-TV anni ’80-’90 di Chilling Abyss, content creator che finalmente ora comincia a raccogliere le prime sparse bacche di un incipiente successo mediatico, dopo aver gestato in rete per tredici mesi.

Arcadia segue le emissioni di una omonima TV (un canale dallo stesso nome esiste peraltro nel mondo esteso, quindi non lasciatevi fuorviare) che, predicibilmente, vengono interrotte da forze esterne, di cui si accenna che il primo contatto con la Terra sia stato dovuto a interferenze facenti seguito alla scoperta di nuove tecnologie di comunicazione inter-universale (tu pensa).

La serie vendemmia elementi da vari capisaldi dell’analog 2018–2022: dal cosmic horror di Gemini Home Entertainment al formato di Local 58 (a sua volta ripreso più volte nella microstoria del genere), all’identity horror di Mandela Catalogue, allo short di EAS, alle ambientazioni ctonie di Sinkhole e, in parte, dell’ora tanto popolare Greylock, fino al door chill di DOORS. E questo solo per citare alcuni esempi.

In tale operazione di impollinazione, Chilling Abyss riesce piuttosto bene. La serie (ancora in fieri) intrattiene, spaventa, ed evoca sensazioni che cambiano di episodio in episodio, dall’atemporalità dello stile 2018 alle paure domestiche à la Skinamarink degli episodi più ispirati dalle estetiche degli anni ’20. Eppure, la sensazione di chi scrive è che Arcadia manchi di un aspetto fondamentale del genere (che questa assenza sia per errore o disegno non sta a me deciderlo): la liminalità. Guardando Arcadia non ci si trasporta mai davvero in una zona di confine tra senso e non-senso, luogo e non-luogo. Perché?

Io credo, modestamente e per quanto possa valere, che il punto non stia tanto nei meriti dell’opera in quanto tale, ma piuttosto nell’esperienza atomizzante dell’analog ai tempi della guerra. E quando dico “tempi della guerra” (o “delle guerre”, se preferite) li concepisco come opposti ai tempi della peste, la pandemia.

Chi scrive, lo ripeto, non ha particolare esperienza di studi storici o antropologici. Ma una cosa mi pare chiara: la differenza tra gli anni del covid e quelli dell’Ucraina-Palestina non sta tanto nella modalità di fruizione dell’informazione (bombardamenti mediatici, momenti di informazione collettiva, la TV che si trasforma in una sorta di camino intorno a cui congelarsi davanti alla bruttezza delle nuove), quanto nella sua relazione con l’esterno.

La guerra non ferma le nostre vite, e, quando e se lo farà, non lascerà uno spazio sicuro, neppure nel buio retroilluminato delle nostre stanze: come appunto questo arboreto di protezione non è lasciato alla gente di Gaza, o a chi subisce gli attacchi di Mosca.

Il covid, invece, arrestò tutto, fece dei suoi anni un enorme meta-non-luogo, dove le nostre camere divennero improvvisamente backrooms, spazi membranosi in comunicazione col Sottosopra, affioramenti geologici donde sgorgavano le acque semidimenticate delle creepypastas ma nelle tinte sfumate del Y2K; e lo fece lasciandoci la sicurezza del controllo: non uscire, e non ti ammali. Vivi, dentro. Un infinito interno notte: magico, perché le mura parlavano, e il mondo tremava di senso, e questo perché – post-post-post-post-marxianamente – di nuovo eravamo comunità.

Abitavo a Parigi all’epoca, ricordo le pentole battute a mo’ di tamburo nel cortile. Ricordo le persone del vicinato che subitaneamente assunsero una faccia. E ricordo poi l’ingresso in rete, a sera, quando le luce fuori si faceva rosa e cobalto e nella stanza moriva, essa, finché il computer non cliccava acceso e la comunità continuava. Ma oltreoceano attraverso le sinapsi di un cervello collettivo, che godeva del nostro infranto isolamento. Lockdown: pausa – comunità – senso – magia. Guerra: morte.

Ora, pare stia facendo l’elogio del covid: no. Dico solo che l’analog, ossia l’interstizio kinghiano che “ogni 27 anni” riemerge in momenti di particolare comunione, e di recente ha preso la forma di un meraviglioso progetto artistico multipersona come YouTube, non è più “quello di una volta” (signora mia!). Arcadia ne è la prova: serie brillante – ma non magica. Come ne sono una prova le ultime uscite di Mandela, sia chiaro. O Greylock, o gli ultimi scampoli di Vita Carnis, o le nuove uscite di Anomaly. E allora come potrà reinventarsi il genere?

Anzitutto, con nuova fruizione. Più persone fanno esperienza dell’arte indipendente, più questa avrà un senso, come le divinità di American Gods. Eppoi, con nuova creazione. Impegno. Significato. L’analog ai tempi della guerra: i tempi che, lungi dal fermarsi, vanno troppo veloci. Che tipo di alternativa all’Orrore potrà proporre il nuovo horror?

A voi la sentenza. Frattanto, sostenete chi ci prova.

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