Un flâneur nella Nicastro di Lamezia Terme: intervista a Raffaele Gaetano

I miei ricordi di Nicastro risalgono a quando, bambino, mi recavo in questa città con mio padre, come oggi ci si recherebbe in un grande centro commerciale. Per chi viveva in provincia come me, in un paesino della costa tirreno-cosentina, l’alternativa a Cosenza, da raggiungere attraverso il valico della Crocetta (esperienza per stomaci forti!) era sconfinare nel Catanzarese e raggiungere, appunto, Nicastro.

A distanza di più di cinque decenni ritorno a Nicastro per una passeggiata diversa, non più “commerciale”, ma direi filosofico-culturale, secondo quell’arte che si definisce “flânerie”, quel passeggiare senza meta che amava Apollinaire.[1]

Chiedo a Raffaele Gaetano, filosofo nicastrese, esperto di estetica del viaggio tra ‘700 e ‘900, fine studioso di Leopardi, di accompagnarmi in questa passeggiata della memoria.

La prima cosa di cui chiedo a Raffaele è della strana fusione delle storiche cittadine di Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia nella nuova città/comune di Lamezia Terme, ciò nel lontano 1968. Cos’è cambiato, se qualcosa è cambiato, nella “frase urbana”[2] di Nicastro da quel dì?

“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, fa dire Giuseppe Tomasi di Lampedusa al personaggio di Tancredi in uno dei luoghi più felici e celebrati del Gattopardo. Non si può dire che anche per il padre fondatore di Lamezia Terme, Arturo Perugini, personalità turgida e appassionata, le cose stessero esattamente così. Tutt’altro. Eppure, quell’esperienza, per ragioni ancora poco intellegibili ai più, è scivolata dall’osanna al crucifigge, dal pensiero forte a quello debole, ‘sì che a distanza di tanti anni molto è cambiato per restare com’era, alimentando quella «gora» di resistenza al novum ravvisata anche da taluni visitatori moderni.

Raffaele, tu che di questa cittadina sei uno storico promotore di iniziative culturali di altissimo livello, in cosa pensi consista la particolarità di Nicastro nel saper accogliere tali iniziative?

Ho sempre ritenuto che la cultura potesse rappresentare per la mia città l’anello mancante per il raggiungimento di una coscienza collettiva nei fatti ancora scollegata da quella urbana. Forse perché sono un visionario abituato a scompaginare lo spartito del prevedibile, a oggi la scommessa sta portando risultati copiosi e le mie rassegne registrano sempre presenze cospicue per eventi culturali. Ma non mi accontento. Vorrei che tutto deflagrasse in potenti e durature accensioni capaci di generare unità, come dicevo: coscienza collettiva. È un processo lungo che impone uno sforzo comune, concentrico. La verità è che nella nostra città non c’è bisogno di illuminati, ma di operai della vigna che lavorino intorno a un unico ideale di bellezza.

Nella nostra passeggiata nicastrese abbiamo incrociato dimore gentilizie, chiese, scalinate, anche un acquedotto che animava un vecchio mulino, orti chiusi, i resti di un antico castello. Se tu dovessi indicare in un ordine di pregio estetico, ma anche di importanza sociale, quali di queste testimonianze di un passato illustre meglio rappresentino ancora oggi, ed eminentemente, Nicastro, cosa sceglieresti?

Nicastro, Sambiase, Sant’Eufemia hanno rappresentato delle idee-forza con consolidati campanili. Lamezia Terme è nata per unire, ma ha finito per generare nuovi e più subdoli municipalismi. Come dicevo, la cultura può fare tanto. Naturalmente, in questo processo rientrano anche le testimonianze, a volte appena affioranti, di un passato glorioso, che nella nostra città sono spesso notevoli. Ma bisogna evitare che continuino a scivolare in una sorta di arnia senza tempo. È necessario metterle in rete generando circuiti di bellezza condivisa. In questa luce, eviterei classifiche, tutto fa brodo, se sapientemente combinato. Clausola che non tollera repliche.

Nel riguardare le foto scattate durante la nostra passeggiata vorrei scegliere anch’io qualcosa di emblematico di Nicastro, per poi lasciare a te, Raffaele, le parole che possano meglio accompagnare filologicamente le immagini scelte:

Sono scatti di pittoresca bellezza, carnali nei sentimenti, ma proprio per questo intrisi di tristezza amara. Esprimono il senso del transeunte, di ciò che passa e non ritorna. Anche il limone è a modo suo transeunte: passa e non ritorna. E tuttavia dalla tua poetica fotografica vorrei trarre delle suggestioni positive. Una riguarda il concetto di recupero dei due edifici laterali, ossia la vecchia casa comunale di Nicastro e il Cinema Teatro Umberto, non come sterro archeologico ma come riuso in chiave moderna. Per far questo, ripeto ancora una volta, bisogna evitare di chiudersi in una sorta di arrocco, di difesa strenua dei propri municipalismi. Un percorso aspro, arzigogolato, ricco di insidie che solo la cultura può volgere al bene comune, palinsesto per una città futura da sfogliare felicemente.

Carissimo Raffaele, ho cominciato quest’intervista citando Bailly ed il suo “La frase urbana”. Vorrei chiudere questa nostra piacevole conversazione su Nicastro ancora con una citazione del filosofo, poeta e drammaturgo francese, che mi piace condividere con te.

“Ogni città è come una memoria di se stessa, che si offre a essere penetrata e si infiltra nella memoria di chi l’attraversa, depositandovi un film discontinuo fatto di tanti puntini (…): frase o racconto, linea corsiva inventata o ripresa da chi cammina. Ma la città, ogni città, ha i suoi guardiani. E i guardiani, gli amministratori comunali, non sanno nulla, o ben poco, delle cose, dei pensieri di coloro che camminano per la città.”[3]

Note
[1] Apollinaire, Il Flâneur delle due rive, Empirìa, Roma, 2018.
[2] Jean-Christophe Bailly, La frase urbana, Bollati Boringhieri, Torino, 2016.
[3] Jean-Christophe Bailly, La frase urbana, Bollati Boringhieri, Torino, 2016, pp. 80-81.

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