Ogni tanto, tra le pieghe meno esplorate di YouTube, si celano piccole perle di un mondo perlopiù scomparso che, tuttavia, al primo volgere dello scorso decennio, ha informato segretamente le nozioni di inquietudine e spavento, che ancora oggi usiamo per trattare il genere horror. Percezioni distorte, uncanny valleys, liminalità: questi sono solo alcuni degli stili che fanno riferimento a quel periodo di creatività sommersa.
Senza dubbio, uno dei focolai più vivaci di questa estetica (qualcosa a cavallo tra un y2k tardivo e una weirdness incipiente, che spaventa quando vorrebbe solo spiazzare e finisce, pertanto, col terrorizzare anche solo parlando) è il Giappone. Rigoglio di ricchezza smodata negli anni ’80, scoscésosi poi nel silenzio stagnante di una costante crisi senza gente in crisi, il Giappone ha da sempre fornito immagini potenti nell’arte e nella letteratura, venendo inevitabilmente investito di uno straordinario soft power agli occhi del resto del mondo proprio in virtù dell’incrocio di ipertradizione e ipercontemporaneità che ne rende così segnata la produzione creativa.
Oggi, voglio parlarvi di un’opera minuta ma di grande forza, rilasciata nel 2009 da Toshikazu Nagae e passata perlopiù inosservata al di fuori della più accanita fandom: “Banned from Broadcast: Saiko! The large family”. Il formato di quest’opera, per cominciare: si tratta di un lungometraggio (un corto 90-min flick) in stile mockumentary. E sappiamo bene quanto questo dispositivo sia stato usato per ottenere orrore – soprattutto intorno al 2009, gli anni di Cloverfield, REC, Lake Mungo, gli anni perduti dopo gli anni perduti, quelli che in Butterfly Kisses non si trovano più.
La trama, infine. Veronica Addison, una giornalista canadese di spiccata lentezza e generale noiosità d’eloquio, si getta nel Giappone suburbano per restituire la cronaca di una assoluta bizzarria. Una famiglia giapponese (gli Ura) è come il titolo suggerisce, particolarmente “ampia” – numerosi figli e figlie, un marito andato perduto cui si è sostituita una nuova figura paterna, e una madre dalla parvenza angelica –, nonostante il bassissimo tasso di natalità tipiche del Giappone contempoeaneo (che, in questo, è secondo solo all’Italia). Eppure, in questo piccolo angolo di paradiso, fiorisce la violenza: sorprendentemente – delle figlie ai danni del padre. Perché? E perché, ad un tratto, terribili incidenti cominciano ad accadere anche agli altri figli degli Ura, lasciando i genitori indenni?
Non rivelerò nulla, qua, oh voi che leggete. Vi lascerò il lusso di scegliere la vostra interpretazione di questo film, quando lo avrete visto. Sì, perché, in senso forte, “Saiko!” non dice o svela nulla. Le possibili presenze, siano esse umane o sovrumane, che vessano la serenità domestica della famiglia Ura si vedono solo molto di rado, tra un fotogramma e l’altro. Ed è ben possibile che chi guarda neppure si avveda vi siano.
Molto spesso si rimprovera al cinema dell’orrore di essere “troppo smaccato”, di sputare in faccia lo spavento, à la Carpenter, ma senza la sua grazia. Ebbene, qui siamo nel regno di Tourneur – e forse ancora oltre. “Saiko!” può essere guardato senza minimamente accorgersi delle immagini inquietanti che alberga – semplicemente perché, guardando, non le si “vede”. Eppure, un criminale o un mostro, da qualche parte, c’è: a voi la maledizione di guardare e riguardare il film fino all’individuazione del primo raccapriccio. Da quello, gli altri deriveranno a valanga.
E non è questo forse il senso dell’orrore in rete? O forse il senso della rete stessa, come un certo smarrimento che la periferia cognitiva di chi ne fa uso sembrava indicare agli albori della sua funzione, quando tutto era ancora possibile e il design delle big corporations non aveva ancora arato le praterie selvagge appena aperte in quell’iperuranio al coltan che chiamiamo il web? Una superficie di cui si può fare fruizione tutta la vita, senza mai vederne lo scempio. O dove si può scegliere di tuffarsi e vivere l’abisso. E, dopo tutto, non è così forse anche il mondo offline?
“Saiko!” è un testamento a questo terrore. È il male che si nasconde dove non lo immagini. È goffo, ed è malvagio. È l’internet, tesoro. E se ci pensi bene, sì: fa cagare sotto.
Linguista di stanza in Belgio, amante del cinema horror, delle pipe da fumo, delle oltre 7000 lingue parlate sulla pianeta Terra e dell’Africa. Un pot-pourri che cerco di portare avanti come meglio riesco. Avendo passato un po’ di tempo in Etiopia, e dovendone passare pLinguista di stanza in Belgio, amante del cinema horror, delle pipe da fumo, delle oltre 7000 lingue parlate sulla pianeta Terra e dell’Africa. Un pot-pourri che cerco di portare avanti come meglio riesco. Avendo passato un po’ di tempo in Etiopia, e dovendone passare parecchio in Congo, credo di poter fornire uno sguardo da “quasi insider” sui posti che visito – tra cui, le meravigliose e sconosciute capitali sotto il Mediterraneo.arecchio in Congo, credo di poter fornire uno sguardo da “quasi insider” sui posti che visito – tra cui, le meravigliose e sconosciute capitali sotto il Mediterraneo.