Arrivare ad Addis

Ti accorgi che sta cominciando l’atterraggio quando il dormiveglia tipico di chi è al termine di sei ore di volo viene turbato dai bassi sempre più incalzanti del jazz che, per qualche imperscrutabile motivo, l’Ethiopian Airlines ha scelto come finale musicale dei propri voli. Non so come il ritmo di un infarto possa essere gradito a un passeggero, quando siede su un pachiderma di titanio a mezz’aria, pronto a impattare il suolo. Ma tant’è. Così, in un certo senso, l’immagine che ricavi dell’Etiopia prima ancora di arrivarci davvero è fatta piuttosto da una serie di istantanee, più o meno evanescenti, che lasciano però addosso quello stesso odore d’incenso di cui dopo qualche mese di permanenza saranno intrisi tutti i tuoi vestiti.

La prima istantanea, vagamente paradossale viste le aspettative che hai sulla destinazione finale, è quella della sezione voli internazionali del Terminal 3 di Fiumicino. Non so quanto la memoria m’inganni, ma la descriverei come una sorta di spropositata cattedrale, i soffitti alti almeno qualche chilometro, statue crisoelefantine a ogni angolo, e una splendida successione di templi a Gucci, Ferrari, Rolex… non puoi che sentirti fuori luogo, con la tua valigia piena di zanzariere e repellenti per pulci.

La seconda è quella dell’aereo. Rosso, giallo, verde, i motori orgogliosamente griffati Rolls-Royce, il personale di bordo bardato in parte di vestiti lunghi e bianchi, in parte di elegantissimi tailleur o completi colore dell’erba. E, infine, la coperta. Ah, le coperte dell’Ethiopian, non andrebbero prese, ma credo di averne almeno una decina nell’armadio. Ti accorgi, sorprendentemente, di quanto siano calde appena si accendono i condizionatori, e cominci a pensare che in effetti questa gente deve sapersi riparare dal freddo. Prima lezione: non è che “l’Africa” è “calda”. In Etiopia, buona parte della popolazione vive sopra di 2000 metri d’altitudine, e di notte non si rischia troppo di sudare.

Terza istantanea: dal finestrino vedi che il fiume che stai attraversando non è affatto un fiume, ma è il Mar Rosso; il che significa che stai lentamente scivolando dalla Penisola Arabica al Corno d’Africa. Non serve essere cultori di David Lean perché questo ti dia un attimo di brividi sulla schiena.
Quarta: la musica. Quella dannata musica, e così torniamo all’inizio. Se, come me, ogni volta che decidi di salire su un aereo sei convinto che sarà l’ultima scelta della tua vita, preferiresti qualcosa di più disteso. Ma ne abbiamo già parlato.

Quinta: il suolo è abbastanza vicino. Staresti pensando a come onorare al meglio gli ultimi istanti della tua esistenza, se la vista dell’erba nella semi-savana dell’acrocoro non ti occupasse ogni piccolo connettore del cervello. Puoi pensare solo che non hai mai (mai!) visto un prato così verde. (Lezione due: non è che ci stanno solo deserti e giungle).
Dopo questo punto le diapositive si affannano un po’ più caoticamente. Il ritmo ordinato di un volo (preciso, dritto, “bidimensionale”) lascia il posto a un inaspettato bordello d’immagini che non sei assolutamente pronto a processare. Sì, perché chiaramente ti sei fatto raccontare da chi c’è stato come sia “la città”. E te ne hanno dette di tutti i colori.
Tanti ti hanno detto che fa schifo. Senza troppi problemi. Ti hanno detto che è pericolosa, che è un mostro. L’espressione più comune forse è questa, “un mostro”. Sembra che vada di moda per descrivere il 99% delle città extra-europee. Los Angeles? Un mostro! Pechino? Un mostro! Singapore? Un mostro! Al che ti domandi cosa sia più probabile, che l’Europa sia stata benedetta con un full house di belle città, o che ci sia un problema di cultura urbana (oltre che un problema col concetto di “bello”, unito a una certa disposizione di noialtri a farci i massaggini da soli).

Altri ti hanno detto che è affascinante, misteriosa, inquietante. Sempre con questi termini che sembrerebbero meglio appartenere alla descrizione di una regina d’altri tempi. Una Regina di Saba, appunto. Perché c’è sempre questa posizione un po’ ambigua: non si può mai “elogiare” fino in fondo una città africana, resta in ogni caso “al di sotto” delle nostre, in ogni caso è, e se va bene, una distesa fatiscente di case. Poveri, un intero continente costretto a vivere in città infernali, Pandemonia di vario tipo; per carità, affascinanti eh, hanno carattere. Ma vuoi mettere Mostacciano?
Insomma, in ogni caso un luogo vuoto, dimenticato, un po’ un’aberrazione nel piano ordinato delle nostre belle piazze bianche, maschie, europee. Qualcuno persino ti dice: “almeno noi ci abbiamo provato, a raddrizzarla, quando ancora si poteva”. Ti viene da vomitare, ma ti trattieni.
Ora, non che io mi consideri una personalità chissà quanto analitica. E alla fine dei conti, piace quello che piace. Eppure devo dire che avrei voluto sentire qualcuno dirmi le cose come (credo) stanno. Qualcuno assumersi la responsabilità esprimere un giudizio problematico, forse anche sfacciato, su una delle più grandi città del continente. Qualcosa di aperto, criticabile, ma ripulito almeno di quello strato di pregiudizio e condiscendenza che caratterizza ogni espressione di gradimento verso il mondo a sud di Lampedusa.
Qualcosa tipo: “Addis Abeba è una figata”.

Per cui, oggi vi dico questo io. Esponendomi a ogni forma di ragionevole obiezione: “è povera”, “è sporca”, “è enorme”, “è inquinata”, e così via.
Senz’altro. Cionondimeno è una figata. E il giorno che Mostacciano avrà la metà della scena musicale, dei ristoranti, dei locali, dei bunna bar di Addis Abeba, forse potremo davvero fare un paragone. Il giorno che a Mostacciano ci saranno comunità da tutto il mondo, ambasciate da ovunque nel pianeta, forse potremo discuterne. Povera Mostacciano, non è lei il problema.

Il problema è chi pensa che esista solo una città, un modo di viverla, un modo di farla. Così, senza nessuna pretesa di completezza, senza nessuna conoscenza storica specifica, questa rubrica vi proporrà delle brevi istantanee di un viaggio in divenire, in questa periferia del mondo che forse, in verità, ne è capitale.

Lorenzo Maselli