Chi segue Deep Hinterland sa ormai da tempo che sono una grande appassionata della musica pop italiana, dai cantautori più poetici alle canzonette più trash. Eppure Laura Pausini, che è forse la cantante italiana più conosciuta all’estero, mi è sempre formalmente stata sulle palle. Chissà poi perchè?
Forse è perchè è grazie alla Pausini che la banilità proverbiale di tutto ciò che sono stati gli anni Novanta ha potuto raggiungere vette altissime e finora insuperate. A partire da quel poveretto di Marco che “se n’è andato e non ritorna più”, che poi ha aperto la porta a “Non c’è, non c’è il profumo della tua pelle”, che poi ha aperto la porta a Nek.
O forse è perché una volta sono stata tentata di usare “Io canto” all’interno di una lezione universitarie di lingua italiana sui verbi al presente. Tanto anche se a me questa cantante non fa impazzire, pensavo, piace sicuramente a tutto il resto del mondo ed in fondo un motivo ci sarà. Però poi confesso di aver lasciato perdere perchè ho trovato il testo di quella canzone così vuoto di significato che non funzionava nemmeno per il corso di Beginning Italian I. Se proprio dovevo far appassionare i miei studenti americani alla cultura ed alla musica pop italiana, sarebbe stato meglio partire da qualcos’altro.
O forse è perché le sue canzoni sono tutte talmente uguali le une alle altre che anche quando ne senti una nuova non puoi fare a meno di pensare che questa canzone io devo averla già sentita da qualche parte. O più probabilmente è perché avevo intuito da anni che il personaggio pubblico proposto da Laura Pausini in fondo è sempre stato un po’ a metà fra la vigliaccheria sociale ed il paraculismo culturale.
Scherzi a parte: Ogni paio di anni insegno un corso di conversazione in lingua italiana sul tema della musica. All’inizio di ogni semestre parliamo delle canzoni della Resistenza prima di passare alla musica pop e cantautoriale degli anni Cinquanta e Sessante. Ai miei studenti faccio ascoltare due canzoni, Fischia il vento e Bella Ciao, facendogli poi esaminare e paragonare i testi. I miei studenti —che sono bravi ma che l’italiano lo studiano da poco e a volte dicono ancora “io ho andato”— sono ben capaci di vedere la differenza. La prima era l’inno ufficiale delle Brigate Partigiane Garibaldi, esplicitamente comunista, e cantata da uomini e donne pronti a morire da un giorno all’altro per porre fine alla dittatura. La seconda è probabilmente emersa nel Dopoguerra per commemorare quest’ultimi, ma senza nessun riferimento a partiti ed ideologie, in modo da poter piacere, si immagina, ugualmente a comunisti, socialisti e democristiani. Insomma a tutti gli italiani del Dopoguerra. O quasi.
Quando rivedo il testo di Bella Ciao che distribuisco agli studenti sul foglio in bianco e nero, a volte mi sorprende per quanto è mite. Per il nemico, non ha parole più dure di “invasor”. Tutto il resto è montagna e fiori e memoria. Non ha niente di lontanamente aggressivo, nè (per dirla tutta) di rivoluzionario. Ad analizzarla per bene, Bella Ciao in fondo non è veramente una canzone di Resistenza, ma di sacrosanto sollievo per un’invasione violenta che è appena finita. Sarebbe impossibile prendersela con una canzone così pacifica — a meno che una non voglia (per l’appunto, paraculescamente) tenersi buoni i fascisti.
Eppure, pur nella sua semplicità da 25 Aprile, fra questi fiori e queste montagne, Bella Ciao ha qualcosa di profondo. L’anonimità del tanto del suo autore quanto del suo narratore aggiunge qualcosa di universale a questo inno, un nesso fra passato e futuro, una melanconica speranza per una pace ed una libertà che non tutti vivranno per vedere.
Credo sia per questo che non mi piace la Pausini. In alcune decine di parole, questa canzone riesce a dire qualcosa. Lei non c’è riuscita in 14 album.

Nata in Ohio e vissuta in passato a Bologna e a Genova, Mary Migliozzi attualmente vive vicino a Philadelphia, dove lavora nell’ambito dei programmi internazionali universitari. Per oltre 15 anni ha insegnato e ha fatto ricerca accademica in Italian Studies, concentrandosi sulla letteratura dialettale italiana e sulla musica pop e cantautoriale del Bel Paese. È un’appassionata di romanzi gialli inglesi, romanzi russi troppo lunghi per essere letti tutti d’un fiato, e del Festival di Sanremo.