Forse non ci soffermiamo mai abbastanza sul peso che le storie ed i trascorsi degli attori possano avere sui percorsi dei personaggi da loro interpretati sul grande schermo, nonchè sul senso complessivo di un’opera cinematografica.
Per essere più chiari: Spring Breakers di Korine (2012) non sarebbe stato lo stesso se il film non si fosse basato sulla decostruzione delle star di Disney Channel. The Canyons di Schrader (2013) non avrebbe definito così bene una certa decadenza Hollywoodiana se non avesse messo in scena icone come James Deen e Lindsey Lohan. Birdman di Inarritu (2014) non avrebbe avuto lo stesso impatto senza la vecchia star del Batman di Tim Barton come protagonista.
Ma forse il caso più esemplificativo di come un grande film possa emergere dalla riscrittura di tutto quello che uno specifico attore ha rappresentato fino a quel momento (la sua iconicità) è The Wrestler di Darren Aronofsky.
Nl 2008, infatti, il regista di Requiem for a Dream decise di affidare (per il suo film, fino ad allora, più umano) ad un trascurato e decaduto attore come Mickey Rourke un ruolo che potesse raccontare indirettamente la sua nuova fisicità, il suo trascorso, e mettere in scena (così come nel mondo reale) uno sperato riscatto.
Il racconto del Wrestler Randy è una rielaborazione del percorso di Rourke, da divo, dal sex symbol di 8 Settimane e Mezzo a carattere mostruoso e fisicamente deturpato. Di conseguenza, determinati dialoghi e passaggi di The Wrestler contengono una doppia valenza, assottigliando il confine tra attore e personaggio. La riuscita di questa prova fu, parzialmente, un rilancio per la carriera d’attore di Rourke, permettendogli anche di vincere il premio per miglior attore ai Golden Globe.
Tredici anni dopo, Darren Aronofsky torna ad un film sul riscatto. Ma con una maturità tutta nuova, costruendo un vero e proprio melodramma. The Whale, che ho avuto modo di vedere in anteprima al Festival di Venezia 2022, si ispira a una piece teatrale. Il film traccia il racconto di Charlie, uomo di 300 chili, immerso nei sensi di colpa, recluso in una minuscola stanza di un fatiscente appartamento americano, che tenta di riallacciare quel poco che resta del rapporto con sua figlia.
Ad interpretare il protagonista, ispirandosi al lavoro svolto su Rourke, questa volta viene scelto Brendan Fraser.
Brendan Fraser, attore simbolo del cinema mainstream dei tardi anni ’90 e primi 2000, star di cult come la saga del La Mummia (1999) e Looney Tunes Back in Action (2003), mai dimenticato da chi era un ragazzino in quegli anni, ma scomparso dalle scene da anni.
Fraser, infatti, a seguito di diversi problemi fisici e ad una violenza subita dietro i tendoni ipocriti e patinati dello Star System, venne totalmente dimenticato da Hollywood, che lo ha relegato, ma solo di recente, a piccole parti nelle serie TV. Da anni però, anche in seguito ad un evidente e sconvolgente cambiamento fisico da parte dell’attore, i fan di Fraser richiedono un suo ritorno. Il rinascimento di Brendan Fraser, la Brenaissance, appunto.
Proprio da ciò, Aronofsky costruisce il suo The Whale, trasformando Charlie in una vera e propria iperbole di Brendan Fraser. Ma il lavoro sui caratteri non termina qui.
Il regista per interpretare la figlia di Charlie sceglie Sadie Sink, star di Stranger Things e neo-icona della nuova generazione. Ne viene fuori quindi non solo un racconto umanissimo e sincero sul rapporto padre-figlia, ma una vera e propria allegoria, con tutto il peso di un racconto biblico contemporaneo.
Fraser mette tutto sè stesso per rappresentare una generazione ormai stanca, grassa e consumata dai propri errori. La stessa generazione che, probabilmente, ha prosciugato la sua carriera da attore. Ed in un microcosmo quasi post-apocalittico, dove i giovani hanno abbandonata ogni speranza per il futuro, immola sè stesso per salvare la nuova generazione, una generazione che invece lo ha sostenuto ed amato.
Fraser consegna così a Sadie Sink, simbolo della nuova umanità, il motivo per cui continuare a perseverare e vivere: la spontaneità e quindi la vita stessa. E dietro al finale sembra quasi si venga a tracciare un nuovo volto per il melodramma, che diviene racconto universale del sentimento e della vita tramite il ruolo centrale che le icone popolari hanno sia dentro che fuori dai nostri schermi.
Frequento l’ultimo anno di DAMS a Palermo, dopo aver concluso un percorso all’accademia di cinema Griffith, a Roma.
Studio da tempo la cultura pop e le sue, svariate, manifestazioni. Su di queste ho organizzato pure 3 seminari all’Università di Palermo.
La mia rubrica approfondirà le dinamiche e i linguaggi dell’arte popolare, con particolare attenzione a come, oggi, questi vengano percepiti dai nuovi media e le nuove generazioni.