Falcone e Notabartolo: morire ammazzati come il toponimo di casa propria

Questo non è un pezzo di giornalismo investigativo. Non è neanche un pezzo di storia. Se  fosse una cosa del genere dovreste munirvi di penna e taccuino e prendere appunti, per andare a legare tra loro i protagonisti buoni e i protagonisti malvagi delle vicende palermitane degli anni ’80 e ’90. Chiaramente fare riferimento al capoluogo siciliano è alibi e assoluzione. In cuor nostro sappiamo che le vicende di Palermo sono vicende italiane. Che a Palermo s’ammazzava e a Milano si costruiva, insomma. Per semplificare il male che, come una piovra del resto, avvolge la nazione.

Forse è necessario dire allora che a Palermo si sono concentrati gli eroi, più che i cattivi. Gente che ha fatto il proprio dovere, e lo ha fatto fino in fondo. La letteratura popolare ha scremato di molto la lunga scia di sangue, quasi che i giudici Falcone e Borsellino fossero gli unici morti ammazzati di quegli anni. In realtà ricordiamo per dovere civile Rocco Chinnici, Beppe Montana e Antonino Cassarà, uccisi per il medesimo progetto.

Prima pagina del quotidiano “La Stampa”, 20 luglio 1992. Photo credit: La Stampa

Chiaramente non dimentichiamo gli uomini di scorta. E chiaramente, ancora, esiste la consapevolezza che l’antimafia si è espressa anche oltre il pool. Pensiamo, rimanendo alla letteratura popolare sopravvissuta alle scremature, al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, o a Don Giuseppe Puglisi. Un elenco lungo di servitori dimenticati, da cui oggi estrarremo dalle pieghe della storia, dalle sue pagine incollate, giusto un cognome: Notabartolo.

Lo ripetiamo: questo non è un pezzo di giornalismo investigativo, nè un pezzo di storia. È la suggestione  di come a volte la consapevolezza renda, forse, meno grottesco il morire. In ultimo, prima di entrare nel vivo della questione, ricordiamo che ogni quattro vittime di mafia, una è donna o minorenne. Che la mafia uccide anche i bambini. Da sempre. E che chi ha ostacolato il male, lo ha fatto perché i bambini un giorno da grandi potessero portare i loro figli al mare, o nelle campagne a preparare la salsa. O a bere la spremuta rossa di melograno. Rosso sangue, che però non fa male.

Emanuele Notobartolo (1834-1893), banchiere e aristocratico palermitano, è considerato la prima vittima “eccellente” della Mafia siciliana. Photo credit: Wikipedia

Un pomeriggio freddo, incredibilmente freddo se si ragiona con l’idea della Sicilia terra del sole e del mare, uno dei tanti luoghi dell’immaginario collettivo. Ma gennaio è gennaio anche in Sicilia, specie se ti allochi dalle parti del suo vulcano più grande. Ero in provincia di Catania con mia moglie, a trovare i suoi, che hanno casa alle pendici dell’Etna. Si sa come sono i parenti in Sicilia. Ti reclamano, ti cercano, ti invitano. Tutte cose belle, ma anche l’antitesi del riposo. Per questo ce ne andammo due giorni a Palermo, a starcene per conto nostro a mangiare, bere e vedere cose.

Ricordo che bevemmo poco vino, drogandoci invece di spremute di melograno comprate dai carretti in strada, a dar forza alle gambe durante quelle estenuanti camminate nella memoria, traballante, del nostro Paese. Mi ero inventato, in macchina, sulle Madonie, una cosa che era un tour ragionato dell’antimafia: null’altro che andare a portare un pensiero nei luoghi simbolo di chi è morto ammazzato per rendere quella terra, oltre che bella, anche libera. Perché la bellezza, senza libertà, è come certe ragazze talmente belle da far credere che somiglino a Dio, anche se poi gli aguzzini le legano sulle strade per far soldi sulla loro carne.

Il Cimitero di Cinisi, in provincia di Palermo. Photo credit: Find a Grave

Un giorno lo racconterò di quel giorno a Cinisi, ma c’è bisogno di tempo, spazio e opportunità. Lo faremo nell’anniversario del ritrovamento del corpo di Moro, probabilmente. Rattrappito in un bagagliaio dove ce lo avevano spinto in tanti, oltre che i suoi materiali carnefici. Non credo esista immagine più forte nella storia repubblicana. Quel corpo arreso, posato in modo innaturale in un sepolcro non sepolcro, una Renault 4 parcheggiata all’incrocio di un’idea capace di superare Washington e Mosca.

La morte dell’Onorevole Moro coincide con la morte del Compagno Peppino Impastato, e pur non essendoci legami diretti ve ne sono di ideali, a frotte. Oltre una storia, che pure ci hanno raccontato. Se andate a casa di Peppino, trasformata in un museo alla sua memoria  e a quella di mamma Felicia, vedrete i libri di Pasolini. E Pasolini lo sapeva, e lo scriveva, qual’era la DC delle brave persone.

Quindi anche Impastato, il Compagno Impastato, di certo sapeva che forse nella Democrazia Cristiana vi erano delle anime nobili, gente seria e quadrata, capaci di sfuggire al compromesso. Era un giornalista, un lettore, un intellettuale. Non disse mai che la mafia è una montagna di merda. I suoi Compagni di lotta lo hanno scritto più volte. Quella è un’invenzione del cinema, efficace nel riassumere in quattro frame mezza esistenza. Lo stesso pensiero, però, lo articolava dentro scritti netti, chirurgici, implacabili. La mafia non ammazza gli strilloni. La mafia ammazza soprattutto chi svela i suoi segreti. E quei poveracci che delle volte si trovano a passare di lì. Le vittime innocenti. Come se le altre fossero colpevoli.

Falcone passava per Capaci, e non era certo uno che passava di lì per caso. Era di ritorno da Roma, dove si trovava per impegni istituzionali. Per tornare a casa, doveva passare per forza da quel punto che univa l’aereoporto di Punta Raisi con la città di Palermo. E qui la sua storia si lega a quella dell’aeroporto stesso, che in fondo è il motivo del perché qualche anno prima uccisero il Compagno Impastato. Quest’ultimo si era infatti messo contro il giro di soldi intorno a quell’opera.

Forse l’omicidio di Falcone, e la letteratura specifica si è espressa sul tema, arriva fuori tempo massimo. Quando effettivamente il magistrato faceva meno paura ai mafiosi. Cuffaro, Totò, lo aveva già affrontato e offeso al Maurizio Costanzo Show. Si badi, un giovane, arrembante e largamente sconosciuto Totò. Non il futuro Presidente di Regione democraticamente eletto e poi finito in galera perché sì, effettivamente, puzzolente di mafia da capo a piedi. E a noi le conversioni tardive fanno sorridere amaramente. Al netto dei diritti alla redenzione, garantiti a tutti, non dimentichiamo mezza virgola.

Si ricordi, la letteratura lo ricorda, che molti palermitani erano stanchi delle scorte, delle autoblindate, di quei  magistrati che volevano fare la rivoluzione culturale. Parecchi erano con Totò, uno degli architetti di questa letteratura popolare dell’esasperazione. Anche la magistratura li guardava male, spesso, quelli del pool. Infatti ci misero Antonino Meli, a distruggere l’antimafia.

Quando ammazzano Falcone, è un cazzotto che forse non serve neanche. Come quando arrivano le giostre in città e scendono giù i bulli a menare il pungiball meccanico e a intimorire tutti gli altri per farsi belli con le ragazze. Insomma, mi è sempre sembrato mancasse quella che lo stesso Dottor Falcone aveva indicato come la causa dei morti di mafia, l’estrema ratio.

L’omicidio di Borsellino è un omicidio diverso. Quando lo ammazzano, Paolo se lo aspetta. Un pentito glielo ha detto, addirittura, che è arrivato il tritolo per lui. Lo sapevano tutti. Forse è per questo, Dio non me ne voglia, nella scala stupida dei miei eroi preferiti, Borsellino supera Falcone per una briciola. Falcone forse muore coraggioso, ma senza quella piena consapevolezza dell’ultimo giorno. Sta di fatto che li ammazzano entrambi, in concorso, una serie di mandanti che rappresentano l’Olimpo della Mafia di quei tempi.

La letteratura popolare si concentrerà negli anni a venire su Riina e Brusca, ma forse la storia in ultimo svelerà il pieno volere soprattutto dei fratelli Graviano. Ma questo non è un pezzo di giornalismo investigativo.

 

Mi trovo a Palermo e, perso tra i giardini e la strada, chiedo a un passante la direzione per la casa di Falcone. Quello si toglie il cappello e mi corregge: “Del Dottor Falcone”, mi ammonisce, prima di darmi il nome della via. Mia moglie è perplessa. “Che hai ?”, le chiedo. “Via Notabartolo. Gliela potevano dedicare la via, a Falcone”. Mi sembra un’osservazione sensata.

Dieci anni dopo, spiaggia di Martinsicuro. Leggo Deaglio, “Qualcuno visse più a lungo”. C’è un capitolo dedicato a Emanuele Notabartolo. Politico e banchiere. Uno che si era messo in testa di ripulire il sistema bancario della Sicilia dai soldi della mafia. Non nel 1990. Non nel 1980. Non nel 1970. Lo fece quando manco la parola mafia era sui vocabolari. Direttore del banco di Sicilia, operò dal 1876 al 1890, quando la sua intraprendenza alla fine portò il Governo Crispi a dimissionarlo.

Al suo posto fu nominato Giulio Benso della Verdura, uno che il nome pare uscito da una sceneggiatura di Topolino. Chiaramente distrusse tutto l’impianto normativo della Banca messo su da Notabartolo. Un po’ come Meli fece con Falcone. Citiamo Antonino Caponnetto, in tal senso: “Meli ha contribuito ad anticipare la fine dell’Ufficio istruzione, non coordinando più le indagini, esautorando Giovanni Falcone, emarginandolo, non accogliendo alcune delle sue istanze, […] e ricominciando l’antico sistema di smembrare i processi di mafia, assegnandoli a tutti. […] Così praticamente smembrò il pool. Vanificò tutto il lavoro che si era cominciato a fare sulle dichiarazioni interminabili, 700 pagine, di Antonino Calderone, capo della Mafia catanese.”

Antonino Meli (1920-2014), Consigliere Istruttore della Procura di Palermo dal 1988 al 1993. Accerrimo detrattore di Falcone, sosteneva pubblicamente che la Mafia non esiste. Photo credit: Wikipedia.

La letteratura è piena di dichiarazione di Meli precedenti la morte di Falcone e Borsellino, quelle dove il magistrato con la m minuscola dice che la mafia non esiste. La Storia giudica da sé i personaggi e, quando sono troppo scomodi, preferisce farli uscire dalle pagine o non metterceli per niente. Meli non se lo ricorda più nessuno. Ma è stato il personaggio centrale attraverso il quale la Magistratura isolò il pool; il preludio delle stragi.

Ora io mi chiedo, e se lo chiede pure Deaglio, quante volte Falcone nel suo studio domestico, lavorando ai processi fuori dal tribunale, sottraendo tempo alla sua vita e alla sua famiglia, abbia pensato a Notabartolo. Lui, a differenza mia e di mia moglie Marina, la vicenda di questo personaggio antico la conosceva. E non gli sarebbe venuto mai in mentedi farsi intitolare la strada di casa sottraendola alla prima vittima eccellente della mafia.

Via Emanuele Notabartolo, a Palermo, la strada dove abitava Giovanni Falcone. Photo credit: Palermo Today.

Emanuele Notabartolo fu ucciso su di un treno, tra Termini Imerese e Trabia, con 27 pugnalate. Ad ammazzarlo furono i mafiosi di Villabate, tali Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, coordinati da Raffaele Palizzolo, uno eletto alla Camera dei Deputati dopo che la sua onorabilità per l’incarico era stata messa in dubbio dalla vicinanza coi mafiosi delle Madonie.

Nel corso della sua arrembante carriera pubblica, Palizzolo era stato nominato consigliere del Banco di Sicilia, dove frequenti e feroci furono i suoi contratti con Notabartolo. La giustizia lo riconobbe colpevole sentenziando 30 anni di reclusione, ma venne poi rilasciato per vizi di forma. In un nuovo processo, il supertestimone convocato, il sicario Matteo Filippello, uno dei primi pentiti prima che Falcone inventasse questa figura, fu ritrovato impiccato. E quindi non se ne fece infine nulla. Falcone lo sapeva. Noi no.

Raffaele Palizzolo (1843-1918), parlamentare palermitano e consigliere del Banco di Sicilia. Fu fra i mandanti dell’omicidio del banchiere Emanuele Notabartolo. Photo credit: Wikipedia.

Citiamo Deaglio, che sull’ultimo processo a Palizzolo ha scritto poche righe esemplari: “Il processo si concluse con l’assoluzione generale per tutti, per mancanza di prove. Palizzolo fu accolto a Palermo da una folla festante che lo portò in trionfo. E in trionfo vennero accolti anche i giurati popolari di Firenze, che accettarono la cittadinanza onoraria della città”.

Forse Falcone lo avrà anche pensato, morendo, questo epilogo grottesco dell’epica di Notabartolo. Si sarà chiesto amaramente se ne valesse la pena di morire così. Si sarà dispiaciuto di quegli innocenti che ora morivano con lui e con la Dottoressa Morvillo.

Poi solo il buio e una terra montante rabbia per qualche mese, ma non troppi. Giusto il tempo di far raffreddare l’asfalto, necessario alla retorica per svuotare di senso il sacrificio degli eroi, così da poter fare come diceva il giovane Tancredi Falconeri, nipote di Don Fabrizio Corbera. E questa non è un’altra storia.

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