Pasolini ha scritto molto, ma non troppo. C’è sempre una sensazione di incompiuto, quando ci avviciniamo alla sua opera. Forse la versione definitiva di Petrolio, romanzo per cui P.P.P. è stato massacrato quella notte all’Idroscalo, avrebbe chiuso la quadra, sostengono alcuni. Si può morire per un romanzo? Certo che sì. Come si può morire per una poesia. La letteratura, si sa, è una lama invisa alla reazione.
Federico Garcia Lorca venne assassinato in una strada polverosa da qualche parte che neanche si sa, ammazzato come quei cani che hanno morso il padrone. Perché, di fatto, è questo che i fascisti chiedono ai poeti. Non di non essere poeti, ma di essere servili, accondiscendenti, o al limite silenziosi. E la stessa cosa la chiedono agli scrittori, ai cineasti, agli intellettuali tutti.

E’ noto che Mussolini temesse D’Annunzio e che alla sua morte tirò un sospiro di sollievo, dopo averne di fatto favorito la gloria in vita, che tanto era cara al Vate. Nel frattempo però, e questo è molto meno noto, il fascismo s’era comprato Pirandello, affidandogli qualche incarico qua e là così che potesse tener buona tra l’altro l’isteria della moglie, impazzita dopo il fallimento della solfatara di famiglia. Nel frattempo, mentre l’anima di D’Annunzio imbolsiva dentro l’agio della reggia e mentre Pirandello regalava alla campagna per l’oro di Mussolini la medaglia di Stoccolma, un uomo molto gracile scriveva nella penombra di una cella.
Di nome faceva Antonio, di cognome Gramsci e, oltre ad aver fondato il Partito Comunista Italiano, era un intellettuale tutto d’un pezzo, il primo in Italia capace di scrivere in maniera dettagliata e antropologica intorno al tema, anzi ai temi, delle classi subalterne. Soprattutto per questo il regime lo mise dentro, di fatto ammazzandolo, ché aveva una salute cagionevole il piccolo grande sardo. Salute definitivamente compromessa da quell’infamia dettata dalla paura di Mussolini, che era sì un macho, ma anche uno stupido, uno che più di tutti temeva la gente di cultura per quella loro capacità di scavare dentro le viscere dei regimi fino a mostrare al popolo festante la merda di cui i regimi stessi si nutrono.

A prendersela con gli intellettuali, gli scrittori, i poeti, sono stati tutti i regimi. Sappiamo senza sapere che Putin fece assassinare Anna Politkovskaja, del resto (sapere senza sapere è il più grande lascito che ci ha lasciato Pasolini, tenetelo in testa). Hitler temeva talmente tanto gli scrittori che voleva addirittura cancellarne la memoria, con quelle fiamme prodromo di ciò che andava macchinando contro ogni diversità rispetto alle strampalerie intellettuali del nazismo, da far passare per il camino. Pol Pot, per non sbagliare, considerava intellettuali da punire con la morte tutti i cittadini cambogiani con gli occhiali, e tanto fece.
C’è, per fortuna, giusto la consapevolezza che i regimi prima o poi finiscono, che la storia indossa il coraggio e li va a scovare. Li ritrova in genere, i regimi, nascosti in qualche buco sotto il pavimento, come i mafiosi e come i topi. Travestiti su qualche camion, a cercare la fuga per la propria vita dopo aver massacrato quella degli altri senza alcun ritegno. Il regime purtroppo non lo uccidi, a dire il vero. Scacci via la macchia grossa come il sugo di un tortellino che t’è caduto sul vestito buono della domenica.
Quello è il dittatore, che del regime è il direttore d’orchestra. La macchia, l’alone che resta, è la vergogna da attribuire a tutta la marmaglia rappresentata dagli sgherri del regime, quella teppaglia che poi effettivamente si occupa d’andare in giro ad umiliare i padri davanti ai figli, a stuprare le donne davanti ai mariti, ad ammazzare ridendo e poi via ad ubriacarsi in osteria. La macchia poi, è il lascito dei regimi. Che continua nella cultura della gente, nei codici penali, che sopravvivono infami anche per decenni.

Ammazzare la gente, nei regimi è una cosa normale, un po’ come approvare la finanziaria, che di fatto non s’approva perché appunto nel regime il Parlamento è giusto un luogo dove gozzovigliare. Matteotti ci provò a difenderlo, il Parlamento, con un discorso che è letteratura, e finì come finì, ammazzato a coltellate e seppellito in una buca fatta male, scavata con una lima.
Mentre era già cadavere, Mussolini, che era un codardo, giurava e spergiurava alla moglie del politico socialista che avrebbe fatto di tutto per ritrovarlo vivo. Come ci ricorda Scurati, con quel discorso magnifico censurato da altra teppaglia di governo molti e molti anni dopo, i documenti insanguinati di Matteotti erano in quel momento già custoditi in un cassetto di una scrivania di Palazzo Venezia.
Ma dopo aver parlato di regimi, ora ci chiediamo: come ci si comporta quando s’ammazza la gente nelle democrazie? Cosa dobbiamo scrivere e, soprattutto, è davvero una democrazia un posto dove uno scrittore non è al sicuro? Quindi, in definitiva, che storia ci hanno raccontato, qui in Italia?
Una libreria coi soli libri di Pasolini, contiene comunque migliaia di altri libri, ma anche l’odore della terra vangata al mattino, le cento lire sudate dal sottoproletario alla sera in una periferia disperata, la malinconia della Callas.
Contiene persino la ferocia dei mostri del Circeo che ridono mentre dentro una villa non fanno altro che esercitarsi nell’arte sadica del dominio dell’egemonia contro la classe subalterna, colpevole di una diversità indegna d’esser vissuta, secondo quei giovani di buona famiglia. Ci provò la difesa, a scagionarli condannando le vittime, facendole passare per delle puttane (non lo erano, ma si ragioni sul fatto che ancora negli annni ’70 essere una puttana fosse una nota sul curriculum tale da poter giustificare una mattanza).
Fu soltanto il caso che il processo incrociò la carriera di Tina Lagostena Bassi, che con fermezza e ardore non solo smontò una per una tutte le strampalerie dei suoi colleghi di controparte, ma soprattutto mandò abbondantemente in soffitta quel diritto legato alla consuetudine, che considerava pratica accettabile di fare delle donne un po’ quello che si voleva, retaggio di quei vent’anni di cui s’era tolto il sugo ma non l’alone.

Quando uno parla di Pasolini, parla della Passione del Cristo e di Mamma Roma che, come la Madonna, piange sotto la croce. C’è Moravia, in Pasolini. Le loro discussioni, feroci. Ma oneste. Così Calvino, con cui duellò fino all’ultimo. C’è Totò. Ogni frammento di pellicola, è anch’esso un romanzo. Ogni riga di articolo di giornale, un chiodo su cui fissare un j’accuse. C’è Andreotti, cattivo, altro che la maschera di Pingitore.
Alla fine, per capirci qualcosa, devi prendere le distanza. Ti sposti di qualche metro e Pasolini non sta girando, non sta dirigendo, non sta scrivendo. Pasolini sta dipingendo. Ti sposti di altri metri e ti si svela davanti agli occhi un affresco tragico, una sorta di Giudizio Universale dove un altro regime, che ha l’aspetto feroce dei gerarchi democristiani, si mangia le classi popolari, la loro cultura, la speranza della rivoluzione soprattutto. Pasolini scrive tanto, ma negli ultimi anni scrive sempre le stesse cose, gira intorno allo stesso concetto. È ossessionato, coraggioso, preparato e lucido. Caratteristiche fondamentali per essere condannato a morte.

Negli ultimi cinque sei anni Pasolini scrive un solo libro. Dirige solo un film. Scrive solo un articolo. In realtà gira e scrive tantissimo, ma non si distoglie dal tema. Anzi, rialza la posta. Arriva ad accusare la classe politica dell’epoca di essere peggiore, se vogliamo, di quella fascista. Tocca concetti antropologici, tra cui quello di etnocidio. Gli italiani delle classi popolari ci sono, vivi e vegeti. Sono ancora poveri, poverissimi a tratti. Ma sono diversi, adesso. Dice Pasolini verso il termine della sua vita che oggi gli sarebbe impossibile girare di nuovo Accattone. Non c’è più quel dialetto, non c’è più quella fisicità, non c’è più soprattutto l’opposizione alla classe borghese da parte delle classi subalterne.
Punta l’indice sulla televisione e sulla società dei consumi, per questo annichilimento. E poi, lucido e pazzo, alza ancora il tiro. Capisce, Pasolini, qualcosa che solo dopo la storia inizierà a capire. Che c’è gente di potere che vuole che in Italia si viva dentro una bolla di tensione costante. E che la tensione la puoi sempre attribuire ad altri. Le voci critiche, smettono di essere ascoltate, quando le accusi di mettere le bombe. Pasolini sa, con certezza, che in giro è pieno di Valpreda e di Pinelli, che i colpevoli sono altri. Intuisce la macchinazione che c’è dietro quelle che poi, infatti saranno, chiamate bombe di stato.
È certo della responsabilità pratica dei fascisti, ma è certo dei mandanti soprattutto. Dipinge un quadro che poi la storia confermerà, pur con delle reticenze. Ora sappiamo molte più cose: di Gladio, della P2, dei Servizi Deviati. Pasolini ha l’elenco dei colpevoli in mano, e non stupisca che tra essi via siano Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, presidenti del consiglio e della repubblica (o dell’impero della merda).
Pasolini è un condannato a morte. Ogni giorno quelli che potrebbe graziarlo continuano a ricevere bordate. È facile far male a Pier Paolo. Perfino il Partito Comunista lo odia, addirittura lo ha espulso per indegnità morale, in realtà per la sua posizione sull’omicidio del fratello, avvenuta in seno alle lotte intestine tra partigiani. Scrive, senza temere di fare nomi, si spinge ad accusare il generale Vito Miceli, intuendo tra i primi il suo legame col tentativo di golpe fascista di Borghese. La democrazia cristiana tace, ma è il bersaglio prediletto di Pasolini, che non si risparmia. Non ha paura. Come i poeti che non si comprano. Pasolini non è D’Annunzio e manco Pirandello.
In tanti, hanno scritto della sua morte. Mi piace pensare a un Pasolini partigiano, negli ultimi anni, sulla scorta dell’esempio del fratello. Per lui, è una guerra. La combatte con le parole, le uniche armi che conosca. È solo, giusto Marco Pannella gli offre ospitalità. Delle volte ho immaginato Pasolini sopravvivere al due novembre del 1975. Scrivere sul Corriere della Sera di Moro e del suo sequestro come solo lui avrebbe fatto. Scavando dentro le connessioni, invece che raccontando la cronaca. Pasolini è stato indubbiamente il più grande tra gli oratori del dopoguerra. E non è sopravvissuto a quella notte. Ci raccontarono che era morto un frocio, e parte d’Italia ci credette, ché era comodo così. In realtà Pasolini lo uccisero in tanti. E non fu Pino Pelosi. Noi ora lo sappiamo.

Gli avevano rubato le pizze di “Salò”, e quella notte c’era un appuntamento per la riconsegna. Gli avevano messo a credere che, per errore, erano stati dei ragazzi di borgata. In realtà, erano stati i fascisti. Smacco troppo grande, quella Sodoma e Gomorra vestita coi vestiti della loro Repubblica Neonazista Sociale. Sappiamo i mandanti.
Sappiamo che dopo, in quei giorni confusi, sparì da casa quel capitolo di “Petrolio” poi riapparso, guarda caso nelle disponibilità del bibliofilo (mafioso) Marcello Dell’Utri, che anni fa disse di averlo nelle sue possibilità, salvo poi, da buon codardo, ritrattare. Il capitolo scomparso, “Lampi sull’Eni”, era dedicato alle stragi italiane e vedeva protagonista Cefis, il grande avversario di Enrico Mattei. “Petrolio” doveva essere, non si valuti l’incompiuto, un’analisi circostanziata di ciò che era successo in Italia a partire dagli anni ’50.
C’è la mano, esasperata, di quei gerarchi democristiani legati ai Servizi Segreti, nella morte del poeta. Sappiamo che erano in tanti, quella notte. Mala romana, neofascisti. Sappiamo che i mandanti appartenevano per intero a quelle forze che dal dopoguerra avevano governato ininterrottamente il nostro Paese.
Gli avevano messo in testa che Pelosi lo avrebbe accompagnato a recuperare le pizze di Salò, uscito infatti con materiale di scarto. Ne aveva parlato pure col suo amico Ninetto, di quei ragazzi che volevano ridargli il suo film, giusto poche ore prima, a cena. Pensava gli volessero bene, quei ragazzi con cui aveva giocato per anni a pallone e che si mettevano in fila per recitare nei suoi film. E sì, Pasolini andava coi ragazzini, è vero. Inutile negarlo. Ci interessa la verità. Le molte luci di un poeta, e le poche ombre, pesanti come macigni,nere come la pece.
Il luogo dell’incontro doveva essere Acilia, pure questo sappiamo. Poi Pelosi, in ultimo, lo condusse all’Idroscalo. L’omicidio perfetto. Pasolini ucciso da un ragazzo che, all’ultimo, non gli si volle concedere. Ci hanno raccontato che uccisero un pedofilo, invece uccisero un poeta. Perché Pasolini quella sera sulla sua Alfa non aveva caricato uno sconosciuto, per sfogare i suoi istinti. Aveva caricato un ragazzo che conosceva da settimane. Perché erano settimane che si organizzava la riconsegna delle pizze di Salò. Erano settimane che Pelosi era dentro la macchinazione.

Non c’erano i ragazzi di borgata, con le pizze, ad attenderlo. Lo ha mostrato, sullo schermo, in un film poco celebrato, il regista David Greco. Vedetevi “La Macchinazione“. Fa male. Pasolini quella notte morì solo. Poche ore prima, a Ninetto aveva detto: “Sai Ninè, mentre camminavo per venire qui tenevo la testa abbassata perché non avevo il coraggio di guardare in faccia la gente”. Poche ore dopo, una donna vide quello che gli sembrava un sacco dell’immondizia. Era il corpo ridotto a straccio del Poeta. Un uomo che era stato lasciato solo.
Lo ammazzarono gli stessi che avevano ammazzato Garcia Lorca. La teppaglia. Gli stessi che avevano ammazzato Matteotti. Gli sgherri del regime. Lo ammazzarono a bastonate e a catenate. C’erano dei nomi che sappiamo con certezza, adesso. Antonio Pinna, ad esempio. Lui, di Pasolini, era stato pure amico. Aveva un’Alfa come quella di Pier Paolo. Giorni dopo, prima di scomparire in Sud America, l’aveva portata da un carrozziere ma quello s’era rifiutato di intervenire.
Si dice vi fossero ancora attaccati brandelli di corpo di Pier Paolo Pasolini, sotto. Pinna cambiò carrozziere, non prima di aver raccomandato all’altro di non fare un fiato. C’era Jaques Berenger, uno dei capi dei Marsigliesi. È tutto scritto, basta andarselo a cercare. Unire nomi. Fatti. Circostanze.

C’era la mala e la manovalanza. I fratelli Borsellino, che sappiamo addirittura giunsero in moto. C’era Giuseppe Mazzini, detto Jonny lo Zingaro. Nel 2022 Aldo Colonna ha raccontato l’omicidio nei dettagli sulle colonne de Il Manifesto. Non ci serve ricordarlo ancora, di come gli passarono sopra più e più volte con la macchina, dopo averlo preso a bastonate e catenate. Si difese, Pasolini. Era un esperto di arti marziali. Pelosi, da solo, non avrebbe potuto sfiorarlo. Lo ammazzarono con ferocia e con la solita boria della teppaglia quando ammazza i poeti. Dopo, forse, andarono a bere e a giocare a poker nelle loro bische.
Lo ammazzarono gli stessi che avevano ammazzato Garcia Lorca. Si dice che Berenger, quella sera, fosse imbottito di cocaina, perché, senza di lei, anche lui era un codardo. Lo ritrovarono la mattina dopo, quel corpo che sembrava un sacco dell’immondizia. Nessuno, dalle baracche lì intorno, era corso ad aiutare il poeta. Ci provò a far luce Oriana Fallaci, subito dopo, su quella gente dell’Idroscalo che non poteva non aver visto e sentito. Un muro di gomma. La paura. La stessa di Pelosi, che s’accusò di tutto, per difendere la sua famiglia da quei macellai.
Lo ammazzarono come s’ammazza un cane disubbidiente, sulla sabbia, in una notte che non sappiamo se c’era la luna. Lo ammazzarono i soliti barbari comandati dalla solita gente. Morì solo Pasolini, che credeva quella notte che quel Pelosi gli avrebbe dato modo di riavere le pizze di Salò. E invece lo condusse al martirio, che è il martirio dei Resistenti. Ciao Pa’, continua ad illuminare la strada, che è ancora, di nuovo, buio.

Antropologo non praticante, nasce a Rieti nel 1982. Laureato presso l’Università di Perugia, al momento ha messo la sua laurea in fondo al cassetto dei calzini preferendo andarsene in giro a commerciare bottiglie di vino. Appassionato delle vite dei santi, se n’è già occupato in un piccolo mensile che poi però è fallito. Sposato, gli piace la pastasciutta e ha una forte passione per la Milano degli anni ’80. Anche se a Milano ci è andato giusto tre volte.