Il dibattito sul salario minimo è un classico intramontabile, capace di infiammare gli animi e dividere le opinioni. Da un lato, la richiesta di garantire una retribuzione dignitosa per tutti i lavoratori. Dall’altro, i timori, spesso agitati come spauracchi, sugli effetti negativi che questa misura potrebbe avere sull’economia. Tra le paure più ricorrenti, oltre alla presunta perdita di posti di lavoro, spicca quella di un’inflazione galoppante, una “bolla” pronta a scoppiare al primo aumento della paga base.
Eppure, decenni di ricerca empirica, culminati simbolicamente con l’assegnazione del Premio Nobel per l’Economia nel 2021 a David Card, Joshua Angrist e Guido Imbens, suggeriscono una realtà ben diversa e molto più sfumata.

La Teoria Neoliberista e le sue Previsioni (Spesso Smentite)
La narrativa neoliberista classica, basata su modelli di concorrenza perfetta, sostiene che imporre un salario minimo superiore a quello “naturale” di mercato provochi inevitabilmente due effetti negativi principali: la riduzione dell’occupazione (le imprese non possono permettersi il costo maggiorato e tagliano personale) e l’aumento dei prezzi (le imprese scaricano i costi sui consumatori, generando inflazione). Secondo questa visione, il mercato del lavoro, se lasciato libero da interferenze, troverebbe da sé un equilibrio, remunerando ciascun lavoratore “per quello che vale” in termini di produttività.
La “Rivoluzione della Credibilità” e l’Evidenza Empirica
Il punto di svolta nella comprensione degli effetti del salario minimo è arrivato con lo studio pionieristico di David Card e Alan Krueger del 1994. Analizzando l’impatto di un aumento del salario minimo nel New Jersey rispetto alla vicina Pennsylvania (dove era rimasto invariato), i due economisti utilizzarono un ingegnoso “esperimento naturale” nel settore dei fast-food. Contrariamente alle previsioni teoriche dominanti, non trovarono prove di una diminuzione dell’occupazione nel New Jersey. Anzi, i dati suggerivano persino un leggero aumento. Questo studio non solo mise in discussione l’ortodossia sul salario minimo, ma rivoluzionò l’approccio metodologico, spostando l’attenzione dall’astrazione teorica all’analisi rigorosa dei dati reali.

Da allora, una valanga di studi e meta-analisi ha approfondito la questione. Lavori come quelli di Doucouliagos e Stanley, Belman e Wolfson, o più recentemente Dube e collaboratori, analizzando centinaia di ricerche, convergono su una conclusione fondamentale: per aumenti moderati del salario minimo, gli effetti sull’occupazione sono generalmente piccoli, statisticamente non significativi, o addirittura nulli.
Anche la Low Pay Commission britannica, dopo aver commissionato oltre 140 studi, conclude regolarmente che il salario minimo nazionale ha aumentato le paghe dei meno abbienti con poche prove di effetti avversi sull’occupazione.

E l’Inflazione? Cosa Dicono i Dati?
Se l’impatto sull’occupazione è ridimensionato dall’evidenza, che dire dell’inflazione? L’idea che un aumento del salario minimo si traduca automaticamente in un aumento generalizzato dei prezzi è anch’essa una semplificazione eccessiva. Le imprese, infatti, possono adattarsi all’aumento del costo del lavoro in modi diversi:
- Assorbimento tramite profitti: Specialmente in mercati non perfettamente concorrenziali, le imprese possono assorbire parte dell’aumento riducendo i propri margini di profitto.
- Aumenti di produttività: Salari più alti possono incentivare una maggiore produttività (teoria dei salari di efficienza), migliorando il morale, riducendo il turnover del personale e attraendo lavoratori più qualificati.
- Riorganizzazione interna: Le aziende possono ottimizzare processi o ridurre costi non legati al lavoro (tipo, chessò, i fottuti stipendi dei manager).
- Aumenti dei prezzi limitati: Certo, una parte dei costi può essere trasferita sui prezzi, ma la ricerca suggerisce che questo effetto “pass-through” è spesso modesto e concentrato in settori specifici (come la ristorazione, sui cui meglio che io non scriva niente). Non si traduce automaticamente in una spirale inflazionistica a livello macroeconomico.

Inoltre, non va dimenticato l’effetto sulla domanda aggregata. I lavoratori a basso reddito hanno una propensione marginale al consumo più alta: spendono quasi tutto il reddito aggiuntivo.
Un aumento del salario minimo, redistribuendo risorse verso questi lavoratori, può stimolare i consumi e sostenere l’attività economica, un effetto che può controbilanciare eventuali pressioni inflazionistiche dal lato dei costi.

Il Contesto Italiano: Lavoro Povero e Necessità di Intervento
In Italia, il dibattito si inserisce in un quadro preoccupante di “lavoro povero”. Nonostante un sistema di contrattazione collettiva (CCNL) formalmente esteso, milioni di lavoratori percepiscono salari orari molto bassi, spesso inferiori alla soglia dei 9 euro lordi discussa politicamente. Questo è dovuto sia a minimi tabellari insufficienti in alcuni CCNL (specie nei servizi, agricoltura, vigilanza), sia alla proliferazione di “contratti pirata” firmati da sigle poco rappresentative che praticano dumping salariale. In questo contesto, un salario minimo legale potrebbe fungere da pavimento universale, contrastando lo sfruttamento e rafforzando, anziché indebolire, la contrattazione collettiva di qualità.
Tra l’altro qualcuno dice che molti sindacati remano contro l’idee proprio perché un salario minimo nazionale gli toglierebbe potere di contrattazione. Ma chi sono io per avvalorare certe tesi.

Conclusione: Oltre l’Ideologia, Guardare ai Fatti
L’esperienza internazionale e la ricerca economica più rigorosa, quella che ha meritato il Nobel, ci dicono che gli effetti catastrofici del salario minimo, sia sull’occupazione che sull’inflazione, appartengono più al regno dell’ideologia che a quello della realtà empirica, almeno per quanto riguarda aumenti ragionevoli e ben calibrati.
Le economie reali sono più complesse e resilienti di quanto i modelli semplificati suggeriscano. È ora di basare le scelte politiche sull’evidenza dei fatti, riconoscendo nel salario minimo uno strumento potenzialmente utile per ridurre le disuguaglianze e garantire dignità al lavoro, senza cedere a paure infondate di bolle inflazionistiche o altri spauracchi alimentati da chi dalle diseguaglianze, molto probabilmente, ci guadagna qualcosa.

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