Quando mi scopro impegnato in mille attività noiose, trovo sollievo cercando domande destinate a non avere risposte. Non mi dedico solo agli universi paralleli, ma a quesiti più terrestri di questo tenore: quante pizze farà un pizzaiolo nel corso della sua attività? Mi avventuro in stime improbabili, calcolando un numero quotidiano di pizze moltiplicato per un periodo di esercizio variabile, applicando coefficienti medi legati alla località, al flusso di avventori, alle abitudini e alle stagioni. Non ho ancora avviato un sondaggio tra i pizzaioli di mia conoscenza perché immagino abbiano perso il conto, ma sono sicuro che in qualche angolo di pianeta ci sarà uno studio scientifico in proposito che possa corroborare i miei calcoli artigianali o fornirmi criteri di valutazione più corretti per affinare le mie stime approssimative.
E un barbiere, quante barbe farà nell’arco di una vita? Quest’ultima domanda mi è tornata in mente nei giorni scorsi, quando ho assistito alla cessazione dell’attività di uno storico barbiere nel corso principale della città in cui vivo. Lui ha superato i 70 anni e ha cominciato a frequentare il salone, che ha successivamente rilevato dal precedente gestore, quando aveva 10 anni. Si cominciava in età scolare ad “imparare un mestiere” e all’inizio si spazzava per terra, si passava un panno umido sui cuscini neri delle poltrone “Scuderi di Catania”, si affilavano i rasoi sulla coramella, si sciacquavano i lavabi, si pulivano i pennelli una volta in setole di tasso e, dopo anni di osservazione, si poteva ambire alla prima rasatura.
Diventato adulto ed esperto, il garzone spesso rilevava l’attività del maestro, conservandone il nome storico e proseguendo l’impegno commerciale e sociale. Si, perché il barbiere non è solo un artigiano del pelo ma svolge una eminente funzione di intrattenitore e confidente degli avventori.
Nella sala da barba c’era un silenzio da chiostro benedettino, rotto solo dal costante gocciolio di un rubinetto… plic, plic, plic nella ciotolina dove si bagna il pennello da barba. I clienti sussurrano storie al barbiere e, quando una risata fracassona rompe l’atmosfera da confessionale, i due confidenti sono costretti a condividere con gli altri clienti quell’aneddoto, quel pettegolezzo, quella maldicenza su un personaggio noto o, più probabilmente, sulla consorte.
Dopo la barba, il barbiere applicava un unguento misterioso sul volto, la cui composizione è custodita meglio della miscela della Coca Cola, con una componente alcolica prevalente, per cui nel giro di qualche secondo la pozione evaporava lasciando la pelle in fiamme e una sensazione di pulizia, anche interiore.
Ma il momento in cui mi sono più esaltato è stato quando ho avuto accesso alla “Hall of Fame” dei gentiluomini da barbiere in una specie di cerimonia laica che ricorderò per sempre come il mio passaggio dalla vita studentesca a quella adulta (?). In una nicchia sulla parete della sala da barba, vedevo una serie di confezioni di colonie e dopobarba su cui erano stati applicati dei ritagli di carta, attentamente fissati con un nastro trasparente, che riportavano un titolo professionale seguito da una coppia di iniziali, “Avv. G. C.” oppure “Ing. O.F.”. Il pudore dei vent’anni mi ha condizionato e non ho mai osato chiedere cosa fosse, ma con il tempo ho compreso che i “galantuomini” del paese avevano la consuetudine di consegnare al barbiere una confezione del loro dopobarba preferito in modo da trovarlo disponibile in sala al termine della rasatura.
Il giorno della laurea non ho pensato all’emozione della proclamazione, all’affetto degli amici presenti, all’ignoto che mi attendeva. Volevo invece tornare precipitosamente a casa, andare in profumeria, acquistare il mio dopobarba, portarlo al barbiere e assistere orgoglioso alla compilazione del ritaglio di carta e alla sigillatura sulla confezione: “Arch. B.A.P.”. Voglio ringraziare ora l’amico barbiere e voglio che sappia l’emozione che mi ha donato inconsapevolmente. Uscendo dalla sala, fiero, ho attraversato il corso del paese con il passo di John Travolta ne “La febbre del sabato sera”.
Oggi, il rammarico è per l’ignavia con cui tutti abbiamo assistito alla cessazione dell’attività, condizionata dal passaggio di proprietà del locale. Pochissimi hanno eccepito sulla chiusura di un luogo che non era solo per il lavoro, ma conteneva decenni di storia locale, racconti popolari, giudizi (più o meno richiesti) sulle vite altrui e tanta umanità.
A Genova, il Fondo per l’Ambiente Italiano è intervenuto direttamente per restaurare e gestire una barberia storica nei “caruggi”, la Barberia Giacalone, conservandone gli interni e destinandola ad un uso assolutamente innovativo e rivoluzionario: barberia.
Possiamo quindi assumere che il nostro paese abbia un problema di memoria e di trasmissione delle conoscenze. Ci si ricorda di luoghi e figure solo quando la stampa bulimica decide di occuparsi di qualcosa o di qualcuno, divora il suo pasto e poi congela i pochi avanzi.
Vale sempre ricordare che, come sosteneva lo storico Edward Carr, “la storia è composta di storie“; e le storie accadono in certi luoghi non solo per coincidenza. Se invece di vincolare le case cantoniere, le chiesette prive di qualsivoglia pregio, si potesse introdurre un criterio di valutazione legato alla storia che passa dai luoghi, dalle pizze infornate, dai volti rasati, ai caffè serviti, e sottoporre a tutela gli ambienti in cui una storia si somma ad altre storie, e poi ad altre storie, e ancora ad altre storie.

Architetto, giornalista, autore e conduttore radiofonico, volontario del Fondo Ambiente Italiano e sicuramente altro che non ricordo o mi vergogno di ricordare. Aspirante podcaster, ex giocatore di World of Warcraft, convinto sostenitore del multiverso e dell’universo specchio, profondo conoscitore di Star Trek. Adoro Vincent D’Onofrio, David Tennant, la commedia italiana degli anni ’50, le serie TV inglesi. I miei gusti cinematografici si agitano tra “The raid” e “Quel che resta del giorno”, escludendo scientificamente i film italiani. Citazione dotta: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, Publio Terenzio Afro, “Il punitore di se stesso”, 165 a.C.