Quindici anni fa, ho ricevuto un incarico da un Comune italiano per seguire una rete europea di scambio tra paesi per approfondire le tematiche relative alla condizione abitativa delle periferie. I partner erano città di diversi paesi europei, dalla Polonia all’Ungheria, dalla Germania all’Olanda e ho avuto occasione di viaggiare e verificare le condizioni di alcune periferie di città nei paesi dell’est europeo, vicini all’ex regime sovietico… per intenderci, quei paesi in cui si costruivano stecche di abitazioni all’epoca del “ti spiezzo in due”.
In occasione dei meeting europei, ho cominciato a sentire parlare di “fuel poverty”, ovvero quella particolare forma di povertà che affliggeva gli abitanti di edifici costruiti con materiali scarsi, con infissi scarsi, con impianti scarsi e con costi di gestione elevatissimi, anche a causa dell’altissima dispersione termica delle abitazioni. In sintesi, le case erano destinate a operai che avevano salari bassi di cui una buona parte evaporava per pagare bollette di gas e corrente salatissime, e avere freddo.
I colleghi tedeschi esibivano con orgoglio i quartieri delle città alimentati dal teleriscaldamento e qualcuno si lustrava la fava per gli impianti nucleari “a due passi dal centro città”. In quel momento mi sembrava una condizione inimmaginabile per noi che vivevamo nel ricco Occidente e soprattutto eravamo convinti di abitare case bellissime e modernissime, del genere “ho chiamato l’architetto ma ho deciso tutto io”.
Da qualche mese, anche prima dei noti fatti bellici, i costi dell’energia sono aumentati e immediatamente le nostre bollette hanno cominciato a farci paura quanto la busta verde degli atti giudiziari. Con l’avvio della follia bellica, il tema dell’autonomia energetica è diventato centrale per “l’agenda di governo” e abbiamo ascoltato ogni giorno dati, numeri, considerazioni varie e stime sulla presumibile data in cui non avremo necessità di acquistare energia altrove perché saremo in grado di soddisfare la domanda interna con nuovi impianti di ______________________________.
Lo spazio è volutamente in bianco perché non sappiamo precisamente di quali impianti parliamo perché stiamo parlando di tutte le tecnologie di produzione di energia, rigorosamente al netto dell’energia nucleare bocciata dal referendum del 1987, sull’emozione del disastro di Chernobyl, e di nuovo bocciata nel 2011, sull’emozione del disastro di Fukushima. Pensandoci oggi, a 36 anni da Chernobyl, non so quale esito ci si potesse aspettare in una consultazione popolare con le immagini della devastazione del reattore 4 negli occhi e l’ansia degli anni seguenti per gli effetti sanitari e sociali di quell’evento.
Si parla di rigassificatori, di raddoppio del TAP, di sostegno agli impianti da fonti rinnovabili, eolico e fotovoltaico, per una strategia destinata a mutare sostanzialmente l’ambiente e il paesaggio. Il dibattito di queste settimane ha acquisito il carattere dominante di ogni dibattito privo di analisi e di approfondimento, la polarizzazione; se uno sostiene che non si possa sacrificare la tutela del paesaggio per la contingenza e per la compulsione di intasare e soffocare ettari ed ettari di terreno con aerogeneratori eolici, viene immediatamente additato come uno che preferisce i combustibili fossili, l’inquinamento e per qualcuno anche la guerra in Ucraina.
Associare chi argomenta della necessità di salvaguardare il territorio ad un sostenitore della guerra è una operazione dialettica subdola, in malafede e ormai diffusa. Una parola tedesca esprime un concetto filosofico meglio di ore di dibattito televisivo e di intere pedane di toner per stampanti: umwelt, “il mondo circostante”, inteso come percezione dell’esperienza umana oltre la biologia del contesto. La discussione sui temi della sostenibilità deve ruotare intorno alla cerniera dell’ambiente inteso come “mondo esterno che incide su chi lo abita”, non limitato agli aspetti organici.
Se avete percorso qualche strada della Basilicata, avrete notato il numero impressionante di pale eoliche distribuite, circa 2.000, su una superficie molto contenuta, circa 10.000 chilometri quadrati. E se non avete percorso le strade, aprite Google Earth e fatevi un giro in Basilicata… quei francobolli neri sono impianti fotovoltaici estesi per migliaia di metri quadrati.
A questo scenario, c’è da aggiungere la recente normativa in materia di semplificazione amministrativa, per cui adesso è possibile installare pannelli solari e fotovoltaici sostanzialmente senza richiedere autorizzazioni. Voglio chiarire che non sono contrario alla semplificazione ma mi chiedo come siamo arrivati a questo livello di complicazione per cui dobbiamo ritenere il “fate ciò che volete” una concessione salvifica.
Non ho una soluzione.
Non immagino quale possa essere il compromesso tra l’autonomia energetica e la tutela del paesaggio, in un contesto isterico, con i tempi di esecuzione rapidi imposti dal PNRR e dalla transizione ecologica. Vorrei solo che il dibattito non diventi tanto insopportabile da essere classificato come inquinatore e guerrafondaio per non avere soluzioni e risposte coerenti.
Architetto, giornalista, autore e conduttore radiofonico, volontario del Fondo Ambiente Italiano e sicuramente altro che non ricordo o mi vergogno di ricordare. Aspirante podcaster, ex giocatore di World of Warcraft, convinto sostenitore del multiverso e dell’universo specchio, profondo conoscitore di Star Trek. Adoro Vincent D’Onofrio, David Tennant, la commedia italiana degli anni ’50, le serie TV inglesi. I miei gusti cinematografici si agitano tra “The raid” e “Quel che resta del giorno”, escludendo scientificamente i film italiani. Citazione dotta: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, Publio Terenzio Afro, “Il punitore di se stesso”, 165 a.C.