Parlare di Africa non è mai facile, soprattutto quando chi parla non è nato in quei luoghi, ma ha imparato a conoscerli tardi, quasi inaspettatamente. L’immagine che noi, in Europa, abbiamo del nostro grande vicino è quantomeno viziata da una lunga tradizione di semplificazioni preconfezionate. Un caso speciale, che tocca in maniera particolarmente ravvicinata chi, come me, ha un terrore inveterato per il volo, è quello degli aerei.
Molte persone avranno in mente le scene meravigliose de La mia Africa, con Robert Redford e Meryl Streep che si librano spensieratamente sulle verdi colline keniote, consumati da un amore più alto del Kilimanjaro, contro lo sfondo musicale dell’immortale colonna sonora di John Barry.
Ecco, la mia esperienza è stata un poco diversa.
Prendere un aereo in Congo è un’avventura particolare. Mi pare inutile negare che sia rischioso: tutte le compagnie aeree locali sono sulla lista nera dei voli internazionali, sostanzialmente non possono lasciare l’Africa centrale. Perché? La risposta temo sia molto banale: questi aerei, semplicemente, cascano. Non sempre, è chiaro; ma più spesso che altrove.
Anni fa cadde un aereo KinAvia. “Aereo” è una parola grossa. Un pulmino con le ali. Le cinture sono esattamente come quelle delle gite delle medie, coi sedili di gommapiuma che sanno tanto di Cascata delle Marmore. Ad ogni buon conto, dicevo: cadde questo aereo, e non fu in sé per ragioni strutturali, non è che avesse finito il carburante o si fossero inceppati i motori. No: qualcuno aveva imbarcato un alligatore.
Avete letto bene. Qualcuno aveva imbarcato un alligatore legato con dello spago e chiuso in una scatolona. L’animale, vistosi così tormentato, riuscì a liberarsi sgranocchiando il cartone fino a poterne uscire. A quel punto pare che si sia diretto verso la cabina di pilotaggio (che, esattamente come in un pulmino, non è separata dal resto del comparto passeggeri). A quel punto, tra lo sconcerto delle persone a bordo, il pilota avrebbe perso il controllo del velivolo. E purtroppo il resto, come si suol dire, è storia.
Capirete bene lo sconcerto quando appresi che il mio accompagnatore aveva a mia insaputa imbarcato ben tre bestie simili sull’aereo prima del nostro. Una delle malcapitate non arrivò mai a Kinshasa, mi dissero poi. Ma questo vi lascia intendere il tipo di controlli che viene effettuato prima del decollo. Le valigie sono aperte manualmente dal personale di terra, non una, non due, ma tre volte, e ad ogni tornata c’è un problema, ad ogni tornata un obolo da tributare per poter proseguire. Salvo, poi, lasciare che all’ultimo secondo una fila spontanea di questuanti si raduni alle porte del mezzo, con omaggi di vario tipo da inviare attraverso la giungla – vini, vestiti, ma anche alligatori a quanto pare.
Gli aerodromi della foresta sono strutturati diversamente da quelli che conosciamo in Europa. Spesso basta una pista di terra battuta, piena di sassi, a costituirne uno. Accanto, una capanna, dove si riuniscono le e gli ufficiali della Regìa delle Vie Aeree. Al tuo arrivo aprono enormi registri impolverati, ti chiedono il passaporto e prendono le tue generalità. In genere la scena è la seguente: due anziani scrutano attentamente il tuo documento di identità, vanno alla pagina col visto, lo guardano in controluce per verificare (non so come) che non sia un falso. Riportano minuziosamente sul registro ogni dato, e il processo può prendere alcune decine di minuti. Dopodiché ti chiedono se hai parlato con le autorità.
Cosa siano “le autorità” non è specificato da nessuna parte. In genere, è buona norma prendersi un pomeriggio per farsi venire in mente qualsiasi figura di rilievo politico che possa avere anche la minima attinenza con la zona dove intendi viaggiare. Quando hai pronta la tua lista, cominci a chiedere a ognuna di loro una lettera di benvenuto nel paese, nella quale si specifichi che chi scrive è al corrente dei tuoi spostamenti.
Ovviamente non è che si possa andare direttamente dal Ministro degli Interni. Per cui occorre avere un’avanguardia di qualche tipo, un primo appoggio, nel mio caso la rettrice dell’Istituto Superiore Pedagogico di Gombe, che contatti ciascuna e ciascuno di loro individualmente. Quando hai pronto il dossier, lo cedi temporaneamente a chi è di servizio all’aeroporto. La procedura di verifica prende parecchio altro tempo, mentre terrificanti elicotteri in miniatura (calabroni di varia fatta) ti svolazzano allegramente in testa. Alla fine, ovviamente, c’è il caffè. Il caffè è una sorta di tassa d’ingresso da pagare direttamente alla dogana. Non è formalizzata; ma d’altronde non lo è nessuno di questi passaggi.
Vi chiederete: ma non potevi viaggiare altrimenti? Bella domanda. La posi a un intermediario di una compagnia agricola a Kinshasa, che cercava di persuadermi a prendere la barca invece che l’aereo. Certo, mi disse; nessuno viaggia in aereo. Benissimo, risposi; allora viaggiare in macchina, o in barca, è sicuro? Oh, no, mi fece; muore sempre un sacco di gente.
Alla fine ho scelto l’aria.
Linguista di stanza in Belgio, amante del cinema horror, delle pipe da fumo, delle oltre 7000 lingue parlate sulla pianeta Terra e dell’Africa. Un pot-pourri che cerco di portare avanti come meglio riesco. Avendo passato un po’ di tempo in Etiopia, e dovendone passare pLinguista di stanza in Belgio, amante del cinema horror, delle pipe da fumo, delle oltre 7000 lingue parlate sulla pianeta Terra e dell’Africa. Un pot-pourri che cerco di portare avanti come meglio riesco. Avendo passato un po’ di tempo in Etiopia, e dovendone passare parecchio in Congo, credo di poter fornire uno sguardo da “quasi insider” sui posti che visito – tra cui, le meravigliose e sconosciute capitali sotto il Mediterraneo.arecchio in Congo, credo di poter fornire uno sguardo da “quasi insider” sui posti che visito – tra cui, le meravigliose e sconosciute capitali sotto il Mediterraneo.