Dalla Convention di Glasgow all’Ilva di Taranto: il fallimento della COP26 fra decarbonizzazione e climate change

È forse dagli anni Settanta che tutti parlano di inquinamento, cambiamento climatico e riconversione ecologica. Siamo nel 2021 ed ancora non abbiamo trovato uno straccio di accordo politico globale rispetto a questi temi. Eppure la scienza è ormai da decenni che ci sta dicendo una cosa chiara e tonda: il nostro tempo sulla Terra sta finendo e, se non miglioriamo subito l’attuale stato di salute del pianeta, rischiamo di ucciderci da soli. C’è da dire che piccoli passi in avanti sono già stati fatti in questo senso. Basti pensare all’attuale diffusione dei mezzi di trasporto elettrici oppure alla pratica oramai diffusa della raccolta differenziata. Eppure anche queste innovazioni virtuose rischiano di trasformarsi in un semplice placebo senza una vera riconversione energetica ed uno stop definitivo sull’uso dei combustibili fossili.

Una manifestazione Italiana in difesa del clima, organizzata in concomitanza con la Convention di Glasgow.

Dall’1 al 13 Novembre scorso, tutti i membri ONU si sono posti queste impellenti questioni nel corso della recente Convention sul Cambiamento Climatico (la cosiddetta COP26), che quest’anno si è tenuta a Glasgow. Il Primo Ministro delle Barbados, tale Mia Mottley, ha aperto le danze sollevando fin dai primi giorni della Convention una giusta domanda: “Perché i Paesi più poveri devono pagare per le emissioni dei Paesi più ricchi? Sarebbe più giusto che ogni paese pagasse in proporzione ai propri consumi di aria.”

Mia Mottley, Primo Ministro delle Bardados.

Per placare gli animi rispetto a questo tema spinoso, l’Inghilterra ha proposto all’ONU di elargire 100 miliardi di dollari ai paesi più poveri allo scopo di aiutarli ad affrontare la riconversione ecologica. Una decisione simile però era stata già presa dal COP di Copenaghen del 2009, senza aver portato a grandi risultati. Secondo il trattato di Copenaghen, infatti, l’ONU si sarebbe impegnata ad elargire 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 ai paesi in via di sviluppo. In realtà ne sono poi arrivati solo 80, a fronte di investimenti che non sempre hanno portato gli effetti sperati.

Il Primo Ministro britannico Boris Johnson.

Nel frattempo, la Cina ha annunciato, con piacevole sorpresa, un’iniziativa congiunta con gli Stati Uniti rispetto alla riconversione energetica, sostenendo di essere in grado di ridurre sensibilimente le proprie emissioni CO2 da qui al 2030 allo scopo di non far aumentare la temperatura media del pianeta di più di 1.5°C entro quella data. Affermazione importante. Se non fosse che nel documento finale della COP26, il Glasgow Climate Agreement, c’è una voce rispetto alla de-carbonizzazione che ha lasciato l’amaro in bocca alle potenze occidentali, ma che è stata alla fine accettata da tutti per non compromettere l’intero negoziato. Questa voce controversa definisce l’uscita globale dall’età del carbone come una “PHASE DOWN” anziché una “PHASE OUT“. Il che in soldoni significa che non si parla più di uscita totale dall’uso di combustibili fossibili (phase out), ma di una semplice riduzione nell’uso di questa materia prima (phasedown).

Stralci dal testo originale del Glasgow Climate Agreement, che definice gli accordi sulla decarbonizzazione come una “phase down”.

A sostenere fortemente questa posizione è stata la stessa Cina, la quale giorni prima aveva dichiarato di essersi avvicinata alle filosofie americane rispetto al climate change, annunciando che solo nel 2050 riuscirà a raggiungere gli obiettivi prefissati dall’ONU grazie ad una parziale de-carbonizzazione. Complice della Cina è stata l’India, forse la potenza industriale attualmente più “preoccupante” per quanto riguarda la crisi climatica visto che ha rilanciato di poter raggiungere gli obiettivi proposti dall’ONU solo nel 2070, assieme a Bolivia, Arabia Saudita e Sud Africa. Il che in fondo dà da pensare, anche perchè ad oggi gli Stati Uniti rimangono il paese che inquina di più al mondo tramite l’uso persistente dei combustibili fossili, pur avendo solo la metà della popolazione dell’India.

A riassumere l’esito della COP26 sono state le lacrime dello stesso presidente della Convention Alok Sharma, il quale si è detto profondamente dispiaciuto per come sono andate le trattative.

L’espressione dispiaciuta di Alok Sharma, Presidente della COP26, alla fine della Convention sul clima.

Tra le dichiarazioni dell’India e della Cina ed il fatto che i nuovi obiettivi da perseguire siano in fondo gli stessi già richiesti (e mai raggiunti!) della COP25 di Parigi del 2019, tocca ancora una volta dare oggettivamente ragione ai “bla bla bla” di Greta Thumberg.

Nonostante l’obiettivo cruciale di non far surriscaldare il pianeta di più di 1.5°C nei prossimi anni sembrerebbe sempre più lontano, bisogna però riconoscere il fatto che per un prossimo Summit ONU su questi temi non dovremo aspettare il 2026, ma l’anno prossimo. Uno dei punti decisi a Glasgow, infatti, è quello di riunirsi ogni anno per valutare l’andamento delle condizioni climatiche del pianeta. Il prossimo COP27 è già stato convocato a Sharm El Sheikh per il 2022.

Nel frattempo, qui in provincia di Taranto come in città, continuiamo a respirare e mangiare tumore giocando a raccoglierlo con la calamita (come vi mostro nel breve video che ho realizzato e postato qui sotto) per vedere se a 25 km di distanza dagli impianti dell’Ilva quella sedimentata sulle finestre sia solo polvere. Circondato dall’assordante silenzio delle istituzioni italiane e delle associazioni ambientaliste su questo tema, a Glasgow qualcuno che è andato a difendere il nostro diritto alla vita a dire il vero c’è stato. Luciano Manna ha raccontato la storia di Taranto e del suo problematico rapporto con L’Ilva durante l’incontro “Climate Justice for all”.

Stralcio dall’intervento di Luciano Manna a Glasgow. Source: Ostuninews.

Sì, perché un altro aspetto che ha reso la COP26 ancora più importante è stata la possibilità di creare altri convegni paralleli a quello delle Nazioni Unite, facendo conoscere diverse realtà locali tra innovazioni green e terre martoriate dal cambiamento climatico e dall’inquinamento derivante dai combustibili fossili. Terre martoriate come lo è la mia Taranto, sede dell’Acciaieria più grande d’Europa e della violazione (sotto gli occhi di tutti) dei più basilari diritti umani alla salute ed ad un ecosistema sano. Diritti che la carta dei diritti dell’uomo definirebbe come inalienabili. Ma questa è (forse) un’altra storia.

 

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