Miseria e nobiltà: l’aristocazia pigmea della foresta congolese

Sabin ci carica con la sua masnada di motociclisti su delle carrette a due ruote che stenteresti a credere possano farsi la Laurentina dall’Eur a Cecchignola. Ci aggrappiamo alle improvvisate maniglie di ferro attaccate al sedile e ci avventuriamo, di più e di più, in quello che un tempo qualche agente coloniale avrebbe chiamato “il cuore di tenebra”, la foresta del Congo.

La moto zompa a destra e a manca tra pozze, radici, fanghi. Mi fermo per mettermi una zanzariera sulla faccia, tanti sono gli insetti che mi si schiacciano addosso come piccoli sassi sospesi a mezz’aria. Guardando in alto, risalendo i tronchi degli alberi avvolti di rampicanti di ogni colore, vedo delle nuvole silenziose sbattere da una parte all’altra dei corridoi forestali, pulsare da una chioma a un’altra. Le farfalle bianche della giungla si muovono così, come i respiri delle foglie, e talvolta cadono a terra, ti si spappolano addosso, e resti inebetito alla fine, e appiccicoso dei loro corpi molli.

La strada per Bolingo. Foto di Lorenzo Maselli.

Il tempo della nostra avanzata si misura nel numero dei villaggi che superiamo, e nelle storie dei loro Re Pigmei. Cominciamo dall’ultimo, ovvero dal “finto Re di Bolingo”. E dico finto perché, una volta arrivati al villaggio pigmeo di Bolingo dopo ben trentasette chilometri passati a guardare i fiumi gialli d’argilla del Mai-Ndombe sullo scatafascio di Sabin…resto comunque convinto che il Re di queste parti in fondo sia un altro.

Magari mi sbaglio. Ma secondo me il vero Re pigmeo del villaggio si nasconde tra la folla, ci guarda, ha già deciso cosa fare delle nostre richieste e ha già dato l’ordine di venirci incontro al suo vice, a suo figlio, o magari anche solo al primo malcapitato che passava davanti a casa sua. Il Re (o chi per lui) ora se ne sta là ad aspettarci, vestito di rosso, in attesa di prendersi i nostri proiettili in petto, casomai fossino venuti per quello. D’altro canto, sempre bianchi siamo…e la nostra spedizione è stata pure stata patrocinata da un’università belga.

C’è poi “il Padre del Villaggio”, il re di Sedici. Sedici, perché abita a sedici chilometri dalla cittadina di Inongo, la più popolosa di questo pezzo di Congo. Il padre del villaggio è, letteralmente, il padre di tutti coloro di cui non è già marito o figlio nel raggio di cinque chilometri dalla sede suo trono. Forse nel suo caso “Re” è una parola esagerata. È piuttosto un capo dei riti, una figura para-religiosa. Il Padre del Villaggio non ha uno scettro come il Re di Bolingo. In sua vece, tiene tra le mani un bebé, vivo, nudo, dormiente, esibitamente circonciso, che egli brandisce delicatamente come farebbe con un simbolo di regalità. Sia il finto re di Bolingo che il semi-re di Sedici ci ascoltano, nel mezzo delle loro radure rituali, e pregano affinchè il lavoro di ricerca che ci ha portato da queste parti vada a buon fine. I Re pigmei sono gente cortese, questo va detto.

Il villaggio pigmeo di Bolingo, Repubblica Democratica del Congo.

La penultima è la “norvegese”, la Regina di Dodici, vestita con le magliettine del fondo di sviluppo forestale del Regno di Norvegia. Il suo è un villaggio noto per i suoi cacciatori, e tutti stanno lì intorno a lei, a danzare, a cantare, mentre lei urla e sorride, urla e sorride. E noi restiamo là come degli scemi senza capire se ci voglia ammazzare o accogliere. Alla fine anche lei, però, ci dà il suo beneplacito.

Infine, c’è il vero pezzo grosso della zona. “Il Re dei Re”. O almeno così vorrebbe lui. Diavolo Rosso, Re dei Pigmei di Bobangi, il più piccolo dei quattro in quanto a statura e sicuramente anche il più agguerrito. La faccia cosparsa di polvere rossa, il mantello rosso, la cuffia rossa, i pantaloni rossi, le scarpe rosse, lo scettro rosso, e lui, enorme nel suo rossissimo metro e quaranta, nel mezzo della radura del suo feudo, a inveire contro tutti. E quando dico tutti intendo proprio tutti! Il Re inveisce a turno contro attivisti, vicini di villaggio, e persino noi stessi, rei di essere passati da lui per ultimo senza omaggiarlo a dovere.

Una piccola folla di Pigmei.

La sua storia è curiosa, me la faccio spiegare qualche giorno dopo da Louis, il maestro di Quindici. Il padre del Diavolo Rosso sarebbe morto lasciando indicazione al fratello di trovargli un successore. La scelta naturale sarebbe stata sua figlia, prima Regina di Bobangi. Senonché a un certo punto gli spiriti sarebbero andati dal consiglio del villaggio, e avrebbero detto qualcosa tipo: “Non è cosa che una donna vi comandi. Pigliate il Diavolo, piuttosto”. All’epoca, dice Louis, il Diavolo era potente: sapeva curare la gente e trovava le bestie più grosse della foresta. La gente gli voleva bene perché aveva ripristinato l’ordine naturale delle cose. Finché, però, non ha perso il contatto con la sua identità. A un certo punto, dice Louis, il Diavolo Rosso avrebbe cominciato a infuriarsi per le più piccole cose.

Nonostante le sue proverbiali incazzature, alla fine però siamo però riusciti ad ottenere anche l’appoggio del Diavolo Rosso. Ma è qui che è accaduta la cosa più strana. Mentre altrove, negli altri villaggi, l’avallo del monarca ha comportato di conseguenza anche il sostegno del suo popolo alle nostre iniziative, qui, a Bobangi, il Re ci sostiene solo, mentre il suo popolo gli dà le spalle. Lui, che vorrebbe essere imperatore di tutti i Pigmei tra Kiri e Inongo…passa invece il tempo a sbraitare da solo sul suo trono.

Qualche giorno dopo, il Diavolo Rosso ci viene a trovare per colazione. Gli passo delle sardine, del caffè. Vuole una nostra foto. E frattanto discute del suo popolo ingrato, che non lo venera, non lo adora, non lo rispetta. Louis è con noi. “È chiaro”, gli risponde, “stai sempre incazzato.” E nonostante qui si sia tutti gente democratica, diventa quasi impossibile non provare una certa simpatia per questo povero disgraziato.

A colazione con il Diavolo Rosso, “Re dei Re” dei Pigmei. Foto di Lorenzo Maselli.

Un’ultima nota amministrativa per chi ha passione per questo genere di cose. I “Re”, così come i “capi rituali” dei villaggi pigmei del Mai-Ndombe, dell’Equatore e di tutte le altre province della Repubblica Democratica del Congo dove risiedono i cosiddetti “popoli autoctoni”, sono a tutti gli effetti funzionari dello Stato – uno stato repubblicano, ovviamente. Cosa questo significhi sul piano della giurisprudenza non mi è ancora del tutto chiaro. Forse, ai tempi di Mobutu, o di un qualche Kabila, qualcuno si sarà fatto tutta la foresta in motocicletta scrivendo a penna i loro nomi su di un grande registro ora nascosto in chissà quale segreta ministeriale di Kinshasa, o magari in una qualche soffitta di Inongo. Si può davvero trovare di tutto, in quelle stanze.

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