Lasciare Addis Abeba e scivolare verso est non è un’impresa facile. L’acrocoro etiopico ti prende, ti tiene appiccicato, tra i suoi improbabili boschi di eucalipto, e in genere non ti permette di andare. Se, per i turisti, la città non è che la porta, vagamente infernale, verso la “Terra delle Origini”, poco più che una enorme periferia residenziale per l’Aeroporto di Bole, per chi ci abita Addis Abeba rappresenta invece una boa. Il punto, diremmo, dal quale non allontanarsi. In virtù della sua posizione elevata, lo spazio della capitale è largamente al riparo dalle famigerate malattie tropicali, e in particolare dalla malaria. Così, come in una sorta di strana acropoli, ci si sente protetti, tra i fumi di un costante ingorgo stradale. Le strade che scendono dalla fortezza, poi, non sono nelle migliori condizioni auspicabili. Ricordo di averne avuto piena contezza quando, una volta, decidemmo di andare fino a Harar.
Harar, fortezza ad oriente, pienamente scavata nella sezione islamica del paese, capoluogo della regione omonima, patria dello hararì, una delle lingue letterarie più importanti del paese, sta chiusa tra le sue mura al confine della regione somala, crocevia, da sempre, di culture, e snodo viario fondamentale tra la penisola arabica e l’entroterra etiope. Il suo nome evoca di necessità l’immagine di pellegrini in costante vagabondaggio, coperti di bianco, all’incontro della savana col deserto del nord, ai margini della grande fossa del Rift. Un albero cresce sulla tomba di un uomo santo, rivestita come da un mantello di scritte in caratteri arabi. Ci entri da una fessura nella terra, e Harar ti sembra riassumersi in quell’atto di catabasi – sì, perché la città, come forse anche Addis, ha due dimensioni distinte ma collegate, una celeste e una ctonia, una aerea, bianca, luminosa, e una più oscura, legata alla terra e proveniente dal profondo.
La prima la vedi chiaramente nei mercati. I mercati della frutta, certo, dove il concetto di “dolce” assume un significato del tutto inedito. Dolce non significa più semplicemente morbido al sapore, l’annona di Harar non è semplicemente “zuccherina”: è una sinfonia di miele, un’esperienza incredibile, che ti lascia meravigliato a guardare come un fesso la signora che te l’ha servita. “Signora mia, ma che m’ha fatto?”. E quella ti guarda mentre cerca di convincerti che la merce va a 30 birr al chilo, e quasi quasi le credi.
Ma lo vedi anche al mercato della carne, in piazza. Uno dei miei posti preferiti al mondo. Un carosello a ferro di cavallo, con portici all’italiana, bianco e celeste, dove il colore caramellato degli edifici è schizzato qua e là dal rosso brillante del sangue sulle pareti, della merce trattata – e venduta, si badi, sempre e solo in drappi bianchi, per non attirare l’attenzione delle decine di nibbi che vivono proprio sulla piazza, pronti a calarsi in picchiata su chiunque esca con un pezzo di capra in bella vista in mano. Ti siedi sulla balaustra europea che dà, straniantemente, sulle distese della savana africana, e guardi sotto la città celeste, quella aerea appunto, fatta di case basse in terreno battuto e paglia, colorate di mille tinte chiare, azzurrine con rombi verdi, o verdi a quadrati rossi, un trionfo carnascialesco di toppe e macchie, come una grande tunica veneziana fatta a straccetti e seminata nella prateria.
Questa città, credi, è quella che cercava Rimbaud. Quando arrivi a Harar la prima cosa che ti propongono di vedere è la famosa “Rambo House”, che ha poco a che fare con Sylvester Stallone e molto, invece, con il poeta francese che qui passò dieci degli ultimi anni della sua vita. Poeta, poi? Non lo era già più quando si trasferì in questa presunta periferia del mondo di allora, e la città leggera non lo seppe risollevare.
La città pesante, invece, si muove sotto terra, si estende come un’infiltrazione un po’ ovunque, e ti lascia spaesato e affascinato al contempo. Harar, anzitutto, è paese degli uomini come delle iene, e questa presenza costante è una delle anime più vive del luogo. Le iene non stanno ai bordi dell’abitato, ma ci entrano, attraverso le porte lasciate loro aperte, e mangiano l’immondizia organica rimasta per le strade. Uscire di notte a Harar significa spesso incontrare uno o più di uno di questi inquietanti cani selvaggi, dormire significa lasciarsi cullare dalle loro risate…
C’è persino chi, tra gli hararì, sa parlarci, sa chiamarle, lancia loro della carne, spettacolarmente riunisce folle di turisti e fa vivere loro l’esperienza inferigna di ballare con le fiere. La città ctonia, quindi; la città delle foglie di chat, uno dei mercati più floridi nel mondo dello scambio della droga, fatto di milioni di dollari e di gente buttata per strada, ammassata, con la bava verde a colare sul mento a mo’ di barba. Ricordo quando chiesi all’autista del nostro pulmino di andare più piano (80km all’ora su uno sterrato a fare lo slalom tra cadaveri arrugginiti di decine di altri veicoli come il nostro mi parevano un po’ troppi…). Quello si voltò. Aveva tutta la faccia zozza di verde, e masticava gioiosamente. Mi sorrise, e mi disse, laconicamente: “No!”. Ottimo.
Harar è mille cose diverse. È una faccia diversa dell’Etiopia, forse, ma complementare ad Addis. Città importanti, centri isolati di culture calati in territori allotri, costantemente sotto assedio. Arrivai a Harar pochi mesi dopo il massacro di Jijiga, lì vicina, nel quale varie decine di cristiani erano state, pare, ammazzate da un gruppo di altra fede. O forse decine di Amhara e Oromo erano stati uccisi dai Somali. Le storie di chi ha vissuto l’esperienza divergono, ma puntano, purtroppo, in un’unica direzione. L’Etiopia non è un paese gentile.
È un paese di conflitti, un paese vittima di uno sfruttamento economico sconsiderato, di una classe politica criminale. Ma è anche un faro, una speranza, oltre la violenza. Per ogni Addis Abeba, che si espande contro la possibile valorizzazione del territorio, c’è una Harar che rimane chiusa tra le sue mura, e cerca di difendere un modello urbano che va morendo. Per ogni grande albergo c’è un Fendika. Speriamo che la grande promessa etiope, la promessa di un Corno d’Africa diverso, veda la luce. Per adesso, arranchiamo lentamente di nuovo sull’acrocoro, sperando che l’autista non ci accoppi tutti.
Lorenzo Maselli
Linguista di stanza in Belgio, amante del cinema horror, delle pipe da fumo, delle oltre 7000 lingue parlate sulla pianeta Terra e dell’Africa. Un pot-pourri che cerco di portare avanti come meglio riesco. Avendo passato un po’ di tempo in Etiopia, e dovendone passare pLinguista di stanza in Belgio, amante del cinema horror, delle pipe da fumo, delle oltre 7000 lingue parlate sulla pianeta Terra e dell’Africa. Un pot-pourri che cerco di portare avanti come meglio riesco. Avendo passato un po’ di tempo in Etiopia, e dovendone passare parecchio in Congo, credo di poter fornire uno sguardo da “quasi insider” sui posti che visito – tra cui, le meravigliose e sconosciute capitali sotto il Mediterraneo.arecchio in Congo, credo di poter fornire uno sguardo da “quasi insider” sui posti che visito – tra cui, le meravigliose e sconosciute capitali sotto il Mediterraneo.