La scarpetta: antropologia di un gesto comune

A cura di Stefano Montes

La scarpetta è innanzitutto un gesto. È un gesto debitamente prolungato che va da un senso all’altro del piatto o della padella. E’ un attraversamento che può essere considerato un elogio del percorso, per di più dinamico, e mai – proprio mai – un immobile risiedere. Piacerebbe sicuramente, nella versione tradizionale e un po’ “maleducata” propria delle classi popolari meridionali, al filosofo Gilles Deleuze, ma anche allo storico James Clifford.

È un gesto che dovrebbe essere eseguito con una certa, studiata lentezza: non potrebbe mai essere concepito come un gesto veloce o accelerato o distratto. Chi fa la scarpetta, inoltre, non vuole sprecare niente: è contro lo spreco e l’indifferenza nei confronti del residuo alimentare. Non si butta niente!

La scarpetta è certamente agli antipodi della società dei consumi e dell’accelerazione in cui viviamo oggi. Il sociologo della “società liquida” Zygmunt Bauman certamente la apprezzerebbe. Per di più, la scarpetta è un gesto grazie al quale due materie diverse si incontrano e si mescolano per accentuare, grazie alla loro unione, quel valore generale del vivere che è il gusto: un gusto che nasce dall’incontro con l’altro e mai da una singola composizione, dalla singola identità.

Una scarpetta tradizionale di pane su padella a fine cottura perfettamente eseguita dall’autore di questo articolo, Professore di antropologia socioculturale presso l’Università di Palermo. Photo credit: Stefano Montes.

La scarpetta ha un fondamento antropologico in sostanza: come direbbe il linguista Michail Bakhtin, essa è dialogo – e non monologo – e, come ogni dialogo, essa è sostanzialmente, alla radice, un attraversamento. Ma la scarpetta non è soltanto un gesto, complesso per quanto sia: è un gesto che favorisce l’incontro.

La scarpetta è però anche altro. La scarpetta, per esempio, è anche un nome con un alto gradiente semantico di figuratività oggettiva: rimanda alla scarpa ed alla sua usuale configurazione nella vita quotidiana. Una scarpa può essere investita di una funzione estetica, ma è certamente, senza ombra di dubbio, il simbolo del camminare, passeggiare e muoversi. Si potrebbe dire che il fare e l’essere, nel suo caso, vengano coniugati insieme. Non potrebbe piacermi di più!

La scarpetta è anche regolazione di ordine e disordine. La scarpa è, infatti, nella sua quotidiana dimensione, un elemento con un suo preciso ordine, il quale non può essere trasgredito: si usa per fare alcune cose e non certamente altre (passeggiare ma non mangiare, per esempio).

L’antropologa Mary Douglas porta proprio la scarpa come esempio per spiegare la sua idea di sporco come risultato del ‘fuori posto’. La scarpa non si mette sul tavolo per convenzione: lì è fuori posto; ed il fuori posto – così come il concetto stesso di sporco – è indice di disordine.

Dunque, la scarpetta – nel suo senso figurato coniugato come gesto e gusto – è un fuori posto che va al di là della sua dimensione regolata, applicandosi anche ad un altro campo semantico. La scarpetta è un fuori posto che viene accettato, benché metaforicamente, in quanto combinazione di ordine e disordine, di una pratica (percorrere) e l’altra (combinare elementi a fini gustativi). L’etnologo Georges Balandier, che difendeva la dialettica ineludibile di ordine e disordine, ne sarebbe stato entusiasta.

Infine, la scarpetta ha un valore aspettuale indubbio: si può fare solo alla fine di un pasto o di un singolo piatto. Spesso ciò che viene alla fine, in diverse culture, comporta una perdita di valore. Non è questo il caso della scarpetta che valorizza, invece, l’aspetto terminativo del fare e del gusto.

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